TRIBUNALE DI FERMO Il Giudice, letti gli atti del procedimento n. 2250/2013 rg. Mod 16 a carico di C. G. ha emesso la seguente ordinanza. Con provvedimento reso all'udienza del 29 settembre 2016 questo Giudice segnalava al Presidente del Tribunale una propria sentenza ex art. 425 c.p.p., in quanto la stessa, emessa successivamente alla presa in carico del presente procedimento dibattimentale, configurava un sopravvenuto motivo di astensione, ritenendo cosi' sussistente la fattispecie di astensione obbligatoria ex art. 37 codice di procedura penale cosi' come modificato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 283.2000). Le sentenza predetta, pur assolvendo il C per la carenza dell'elemento soggettivo a suo carico, riteneva pero' provata la commissione del reato sotto l'aspetto oggettivo. L'imputazione definita con sentenza ai sensi dell'art. 425 c.p.p riguardava una falsa testimonianza in un processo civile: si accusava il C di aver deposto in data 14 giugno 2013 come testimone in una causa civile in opposizione all'esecuzione avverso atto di precetto, affermando il falso, e cioe', con riferimento alla consegna, da parte sua, di un assegno bancario, per avere affermato di non aver mai consegnato a due avvocati, che invece avevano azionato in executivis, l'assegno in questione. L'imputazione relativa al presente procedimento riguarda invece una falsa denuncia di smarrimento del medesimo assegno, in realta' consegnato, al contrario, allo stesso legale, cosi' incolpandolo indirettamente di ricettazione. Non si tratta, invero, degli stessi fatti, ma di due fatti strettamente collegati: la mancata consegna, cosi' come dichiarata dal C nel processo civile nel 2013, non puo' che essere ricollegata alla falsa denuncia di smarrimento del 2009, oggetto dell'imputazione di calunnia per cui e' processo. Ragionevolmente, se il C non voleva ammettere di aver commesso un reato, dichiarando lo smarrimento, e comunque di aver dichiarato il falso con tale denuncia, non poteva che ribadire il (falso) fatto dello smarrimento nel processo civile. Di qui il pregiudizio in capo a questo giudice, vale a dire che quanto aveva affermato, in qualita' di GUP, nella sentenza ex art. 425 codice di procedura penale era ne' piu' ne' meno che l'odierno imputato aveva dichiarato il falso innanzi al giudice civile, dicendo di non aver consegnato alcun assegno al suo creditore, ma di averlo smarrito. E in questa sede si discute proprio della falsa dichiarazione di smarrimento, sotto il profilo della calunnia. Di qui la segnalazione, da parte di questo Giudice, della fattispecie di astensione obbligatoria ex art. 37 c.p.p., cosi' come modificata dalla Corte costituzionale (sentenza n. 283.2000), al Presidente del Tribunale il quale, peraltro «rigettava» la richiesta, con nota del 30 settembre 2016. A questo punto, il giudicante interloquiva ulteriormente e, preso atto del provvedimento del Presidente del Tribunale, inviava nota con la quale dichiarava di non poter condividere «...l'orientamento sul dovere obbligatorio di astensione segnalato per il procedimento in oggetto, espresso dalla SV in forma negativa nel provvedimento n. 30 settembre 2016 ...». Nella stessa nota, in via interlocutoria, si prospettavano in maniera articolata le ragioni per cui non veniva ritenuta sindacabile la dichiarazione del Giudice di ipotesi di astensione obbligatoria sia pure nella consapevolezza delle difficolta' oggettive che comportava tale interpretazione che, peraltro, questo decidente riteneva priva di alternative. E, laddove la posizione del capo dell'Ufficio fosse rimasta immutata, si chiedeva di inoltrare al CSM un quesito sul tema «...Sempre che permanga l'orientamento espresso dalla SV, la quale non intenda rivederlo neanche alla luce delle considerazioni proposte ....». Il coinvolgimento del Csm presupponeva, ovviamente, che il predetto organo di rilievo costituzionale avesse competenza a pronunciarsi, sotto il profilo attinente l'organizzazione degli uffici giudiziari. Competenza non del tutto pacifica, ma che comunque era stata accettata da questo decidente, anche perche' gia' il CSM si era espresso in passato su fattispecie analoghe. Sussistevano, infatti, da parte del CSM, due precedenti risposte a quesiti, invero non del tutto in termini in quanto, da un lato, riguardanti una componente strettamente «personale» del dovere di astensione, e relativa alla persona del magistrato che segnalava il proprio dovere di astensione obbligatoria, dall'altro riguardanti il processo civile. Nella «Risposta a quesito del 16 aprile 2009, Il Consiglio superiore della magistratura, nella seduta del 16 aprile 2009, adottava la seguente delibera: «Il 20 agosto 2008 la dott.ssa Giudice della sezione lavoro della Corte d'appello di ... ha proposto un quesito al Consiglio superiore della magistratura relativo al rapporto tra il Giudice e il capo dell'ufficio nell'ipotesi in cui il primo, rispetto a una determinata controversia, dichiari di versare in una situazione di astensione obbligatoria ai sensi del codice di procedura civile. Era accaduto nel caso di specie che la dott.ssa ... si era trovata a dover giudicare in una causa in cui parte era un istituto di credito con il quale aveva stipulato un contratto di mutuo, e aveva ritenuto percio' di doversi astenere ai sensi dell'ultima parte dell'art. 51, comma 1, n. 3 codice di procedura civile che obbliga il Giudice ad astenersi, tra l'altro, quando abbia «... rapporti di credito o di debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori». Il Presidente della Corte d'appello, preso atto della dichiarazione di astensione anzidetta, aveva emesso un provvedimento motivato rappresentando le ragioni per le quali, a suo giudizio, nel caso concreto non sussistessero gli estremi per l'astensione obbligatoria prevista dalla norma citata, concludendo con un dispositivo che dichiarava «non fondata» la dichiarazione di astensione presentata dalla dott.ssa ... A seguito di tale provvedimento la dott.ssa ... ha chiesto al C.S.M. di sapere «se non sussista a suo carico il dovere di disattendere il provvedimento presidenziale ed in caso positivo di conoscerne le modalita' esecutive». Si osserva al riguardo che l'art. 51 codice di procedura civile prevede al primo comma i casi di astensione obbligatoria del Giudice, e al secondo comma i casi di astensione facoltativa. Soltanto per questi ultimi e' prevista una procedura incidentale che investe la competenza del capo dell'ufficio, al quale il Giudice infatti «puo' richiedere l'autorizzazione ad astenersi», mentre per i casi di astensione obbligatoria essa ha effetto in base alla sola dichiarazione del Giudice che ritenga di ravvisare una situazione che l'imponga. In tal senso, oltre alla chiara lettera della norma, versa anche la giurisprudenza di legittimita', che con sentenza Cassazione 23 febbraio 1981, n. 1093 ha precisato che «L'autorizzazione ad astenersi viene richiesta, e puo' essere concessa, solamente nell'ipotesi prevista dal secondo comma dell'art. 51 c.p.c, mentre nei casi elencati dal n. 1 al numero 5 dello stesso articolo il Giudice, obbligato ad astenersi, ha, tutt'al piu', l'onere di comunicare l'astensione al capo dell'ufficio, il quale non deve autorizzarla ma limitarsi a prender atto dell'astensione e a provvedere alla sostituzione del Giudice astenutosi». Tale principio risulta ripetuto anche in tempi successivi nella giurisprudenza di legittimita' nelle rare occasioni in cui si e' dovuta occupare della questione (v. Cassazione 20 febbraio 1998, n. 12842), e risulta certo conforme a diritto. Ne discende, pertanto, che e' responsabilita' esclusiva del Giudice quella di valutare la sussistenza delle ragioni di astensione obbligatoria previste dal primo comma dell'art. 51 codice di procedura penale (fra le quali vi e' quella dichiarata nel caso di specie dalla dott.ssa ...), non potendo il capo dell'ufficio disattenderne al riguardo le determinazioni ma dovendo esclusivamente prenderne atto e adottare i provvedimenti di conseguenza. E' altresi' evidente che le ragioni di sussistenza di tale tipo di astensione sono rigorosamente ancorate al modello astratto previsto dalla legge, e pertanto sul magistrato chiamato alle necessarie valutazioni e determinazioni incombe anche ogni responsabilita' che possa ravvisarsi in merito ad eventuali abusi che possa compiere nel far cio'. Osservava ancora questo Giudice nella sua nota al Presidente come la risposta data in questo caso fosse «sicuramente piu' netta rispetto all'altro precedente risalente, peraltro assai simile, che differisce, sembra, solo su un punto fondamentale e cioe' sulla mera presa d'atto da parte del capo dell'Ufficio, affermata nel 2009 e negata nel 2006»: Quesito posto con nota in data 9 marzo 2005 dalla dott.ssa ... consigliere della sezione lavoro della Corte di appello di rimesso con nota in data 12 marzo 2005 dal Presidente della stessa Corte, volto a conoscere gli ambiti del potere di sindacabilita', da parte del Capo dell'Ufficio, della dichiarazione di astensione formulata nel corso di una causa di lavoro. (Risposta a quesito del 31 maggio 2006) Il Csm, nella seduta del 31 maggio 2006, approvava la seguente delibera: «Il quesito e' formulato a seguito della reiezione di un'istanza di astensione della richiedente presentata in corso di causa in ragione della circostanza che la stessa era debitrice di un istituto di credito, parte in causa, per aver stipulato con lo stesso un contratto di mutuo garantito da ipoteca immobiliare. Il Presidente della Corte ha ritenuto che la causa di astensione obbligatoria di cui all'art. 51, comma 1, n. 3, codice di procedura civile (esistenza di rapporto di credito o debito tra il Giudice ed una delle parti) in questo caso non sussista, in quanto non ha ravvisato una rilevanza tale della posizione debitoria da rendere possibile in astratto la non parzialita' o la mancanza di serenita' del Giudice. Pertanto, ha rigettato l'istanza dichiarandola «non fondata», sulla base della valutazione che «si tratta di rapporto con un ente impersonale garantito da un contratto di mutuo e l'entita' del debito di per se' non rilevante per la banca non lo e' nemmeno per Giudice ...». La ricorrente, ritenendo che nella fattispecie l'esistenza del contratto di mutuo abbia determinato una ragione di debito verso una delle parti di causa che rende obbligatoria l'astensione e che avrebbe dovuto rendere superflua ogni valutazione di opportunita' da parte del Presidente della Corte, ha avanzato il dubbio che il Presidente stesso nell'adottare il provvedimento abbia esorbitato dai suoi poteri e chiede se la dichiarazione di astensione possa essere oggetto di sindacato da parte del dirigente dell'ufficio chiamato a pronunziarsi su di essa e quale debba essere l'atteggiamento che il magistrato deve tenere in presenza della valutazione dallo stesso effettuata. Gli istituti dell'astensione e della ricusazione riguardano entrambi il presupposto processuale dell'imparzialita' e terzieta' del Giudice e si ricollegano ai principi costituzionali dell'obbedienza del Giudice solo alla legge (art. 101) e del diritto delle parti processuali a che il giudizio sia tenuto da un Giudice terzo, nell'ambito di un giusto processo (art. 111). L'art. 51 del codice di procedura civile prevede le ipotesi in cui il magistrato e' tenuto ad astenersi (c. 1) e quelle in cui lo stesso magistrato puo' chiedere di essere autorizzato ad astenersi (c. 2). Nel primo caso i motivi di astensione sono tassativamente indicati (c. 1, n. 1-5, astensione obbligatoria) e possono condurre anche alla ricusazione ad iniziativa di una delle parti processuali, nel secondo caso l'astensione trova origine in motivi di mera convenienza che non possono essere oggetto di ricusazione (astensione facoltativa). L'art. 78 disp. att. del codice di procedura civile prevede che «il Giudice istruttore, che riconosce l'esistenza di un motivo di astensione a norma dell'art. 51 del codice, deve farne espressa dichiarazione oppure istanza scritta al Presidente del Tribunale appena ricevuto il decreto di nomina». Tale disposizione distingue tra la dichiarazione del motivo di astensione e la presentazione dell'istanza di astensione, nella sostanza rimarcando la tradizionale distinzione tra la astensione obbligatoria che opera automaticamente e la astensione facoltativa, che opera solo se la relativa istanza viene accolta. Il punto interessato dal quesito e' quello dell'individuazione dei poteri del magistrato che dirige l'ufficio a fronte della dichiarazione di esistenza del motivo di astensione obbligatoria o dell'istanza di astensione facoltativa, in quanto mentre e' evidente che in quest'ultimo caso deve compiere una valutazione del motivo di opportunita' dedotto, non e' chiaro se nel primo caso egli debba limitarsi a prendere atto della dichiarazione del motivo di astensione o non possa in qualche modo sindacare la dichiarazione fatta dal Giudice. La Commissione richiama il parere dell'Ufficio studi n. 108/06 del 10 aprile 2006 (all. a), che riporta la giurisprudenza della Corte di legittimita' e pone in rilievo che l'autorizzazione ad astenersi e' richiesta solo per le ipotesi di astensione di cui all'art. 51, comma 2, codice di procedura civile (gravi ragioni di convenienza), e non per le ipotesi di astensione obbligatoria, rileva che il provvedimento del capo dell'ufficio (di rigetto o accoglimento dell'istanza di astensione) e', comunque, atto autorizzativo di carattere ordinatorio con evidenti ricadute giurisdizionali, essendo destinato ad incidere sull'individuazione stessa del Giudice. Sulla base di questi elementi deve, innanzitutto, rilevarsi la competenza del Consiglio superiore della magistratura a rispondere al quesito, investendo esso materia attinente all'organizzazione della giurisdizione, sottratta alla disponibilita' delle parti e rimessa solo all'iniziativa del Giudice. Deve essere, inoltre, posto in risalto che, sul piano deontologico «a fronte del fondamentale rilievo che nel sistema costituzionale assumono i beni protetti dal dovere di astensione (imparzialita' e terzieta' del Giudice) ... di grandissima intensita' deve essere l'impegno del magistrato nell'individuazione delle situazioni di pericolo e nel perseguimento, con tutta lo determinazione necessaria, delle possibilita' che l'ordinamento appresta per evitare il grave pregiudizio che la mancata astensione reca alla credibilita' della giurisdizione e del magistrato stesso». Pertanto, «se e' vero che la legge non offre rimedi al magistrato che abbia presentato istanza di astensione nei confronti del provvedimento che non lo accolga, resta pur fermo che e' dovere del magistrato presentare l'istanza ed eventualmente reiterarla o comunque assumere anche le opportune iniziative, all'interno dell'amministrazione della giurisdizione ... per evitare la lesione dei principi del giusto processo» (Cass. Sez. un., 22 novembre 2004 n. 21947). Tanto premesso, rispondendo al quesito del magistrato richiedente, puo' affermarsi che il capo dell'ufficio investito della dichiarazione del motivo di astensione non puo' limitarsi ad una passiva ricezione ed alla presa d'atto di quanto dichiarato dal Giudice. Il principio della terzieta' ed imparzialita' deve trovare, infatti, un necessario contemperamento con il principio del Giudice naturale, anch'esso di livello costituzionale (art. 25 Cost.), di modo che il dirigente dell'ufficio investito della dichiarazione del motivo di astensione deve valutare la sussistenza delle circostanze dedotte a sostegno della dichiarazione stessa. Solo la puntuale corrispondenza della fattispecie denunziata con quelle previste dai numeri 1-5 dell'art. 51, comma 1, del codice di procedura civile legittima la sostituzione del magistrato e, quindi, la coerente conciliazione del principio di terzieta' e imparzialita' con quello di salvaguardia del Giudice naturale. In conclusione, il capo dell'ufficio di fronte alla dichiarazione di astensione del magistrato giudicante di una causa civile, con provvedimento adeguatamente motivato, deve: a) nel caso di astensione obbligatoria, verificare la corrispondenza della fattispecie denunziata quale motivo di astensione a una di quelle fissate dall'art. 51, comma 1, numeri 1-5, c.p.c.; b) nel caso di astensione facoltativa, valutare la situazione di fatto rappresentata dal richiedente e le ragioni di convenienza ai fini dell'accertamento della possibilita' di violazione dell'imparzialita' e terzieta' della giurisdizione affermate dall'art. 111 Cost. Inoltre, le valutazioni del capo dell'ufficio saranno dirette ad evitare, nell'interesse del buon andamento dell'ufficio, ingiustificate sottrazioni da parte dei giudici dalle cause loro assegnate con danno conseguente per l'organizzazione del lavoro e violazione del principio del Giudice naturale». Veniva poi accluso, nella risposta al quesito, un allegato parere n. 108/2006 dell'ufficio studi e documentazione. «La sesta Commissione ha chiesto a questo ufficio una relazione circa la natura processuale o meno dell'istanza di astensione del magistrato giudicante in controversie civili, con riferimento al quesito posto dalla dott.ssa ... consigliere della sezione lavoro della Corte d'appello di trasmesso con nota del 12 marzo 2005 dal Presidente della stessa Corte, volto a conoscere gli ambiti del potere di sindacabilita', da parte del capo dell'Ufficio, dell'istanza stessa. II. Osservazioni dell'Ufficio studi. Gli articoli 51 e seguenti del codice di procedura civile regolano l'istituto denominato astensione e ricusazione del Giudice che tende a garantire, attraverso il presupposto processuale della capacita' soggettiva del Giudice, l'imparzialita' dell'organo giudicante e, quindi, ad impedire che influssi personali possano deformare la giustizia della decisione. In dottrina e' stata affrontata la questione dell'appartenenza del procedimento di ricusazione all'attivita' giurisdizionale o all'attivita' amministrativa degli organi giurisdizionali. L'inquadramento dell'istituto va effettuato tenuto conto che la finalita' del procedimento e' quella di accertare la capacita' soggettiva del Giudice. Il procedimento di ricusazione appartiene dunque a quei procedimenti diretti all'attuazione non d'una norma sostanziale, ma d'una norma processuale; e percio' giurisdizionale puo' dirsi perche' coordinato ad un fine giurisdizionale. Tale procedimento e' stato qualificato giurisdizionale oltre che perche' coordinato ad un fine giurisdizionale, anche in quanto trattasi di un vero e proprio processo avente per oggetto l'attuazione della legge a mezzo d'una azione in ricusazione. 1. La natura giurisdizionale del procedimento in parola e' affermata, sia pure molto concisamente, dalla dottrina piu' autorevole ... omiss Contro questa autorevole dottrina stanno pero' altre opinioni, che vedono nella ricusazione soltanto un procedimento che ha un carattere d'ordine e di regolamento interno nel senso che "il suo oggetto e' la costituzione del Giudice" ... omissis ... L'astensione, secondo le definizioni tradizionali invece non da' luogo a procedimento contenzioso, ma si svolge come un procedimento amministrativo interno, al quale le parti della causa principale sono estranee. Vi sono due tipi di astensione: l'astensione del Giudice il quale conosce l'esistenza d'uno dei motivi di ricusazione dell'art. 51 e l'astensione del Giudice per un motivo di convenienza non enumerato fra quelli suddetti. Il Giudice comunica la sua astensione al Presidente del tribunale non appena ricevuto il decreto di nomina o, se il motivo sorge ad istruzione iniziata, al capo dell'ufficio giudiziario competente (art. 78, D. Att.), il quale dovra' esaminare se e' fondata e deliberare immediatamente su questa (art. 264, Regol. gen. giudiziario); le parti sono estranee a questa deliberazione, che non possono in alcun modo impugnare, pur potendo proporre la ricusazione qualora l'astensione venga riconosciuta priva di fondamento. Invece, nel caso in cui il motivo di astensione sia di convenienza, il Giudice chiede di astenersi (art. 78, D. Att.). L'astensione e la ricusazione riguardano entrambe il presupposto processuale della imparzialità-terzieta' del Giudice e si riconnettono al principio di cui all'art. 111 della Costituzione: sono, dunque, posti a tutela del diritto soggettivo delle parti ad un giusto processo. L'astensione si pone come meccanismo procedimentale preventivo antecedente alla ricusazione. La tutela della terzieta' e' infatti, in primo luogo, garantita dall'obbligo di astensione e, sotto tale profilo, la proposta o il suo procuratore sono condannati in una multa non superiore a lire 5000 ... omissis ... Riguardo all'astensione essa, secondo la dottrina tradizionale, non darebbe luogo ad un procedimento contenzioso, ma ad un procedimento amministrativo interno al quale le parti della causa principale sarebbero estranee. Il provvedimento del capo dell'ufficio che rigetta la domanda di astensione non e' suscettibile di impugnazione. In tale senso si e' pronunciata la Cassazione con sentenza del 19 gennaio 1988 n. 35 che ha affermato il principio secondo il quale "E' manifestamente inammissibile, in riferimento agli articoli 3 e 111 Cost. la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 51 c.pc. nella parte in cui non prevede alcun rimedio contro la decisione del Capo dell'Ufficio in tema di astensione, ne' determina la forma del provvedimento". Secondo tale pronuncia il provvedimento del capo dell'ufficio rivestirebbe un carattere meramente ordinatorio in quanto espressione della facolta' di distribuzione del lavoro e, piu' in generale, della potesta' direttiva. Il provvedimento non avrebbe dunque natura giurisdizionale e da tale dato deriverebbe l'esclusione dell'ammissibilita' del giudizio di legittimita' costituzionale. L'autorizzazione ad astenersi viene richiesta e puo' essere concessa solamente nelle ipotesi previste dal II comma dell'art. 51 c.p.c., mentre nei casi elencati nel I comma dal n. 1 al n. 5 dello stesso articolo il Giudice obbligato ad astenersi ha, tutt'al piu', l'onere di comunicare l'astensione al capo dell'ufficio, il quale non deve autorizzarla, ma limitarsi a prendere atto dell'astensione ed a provvedere alla sostituzione del Giudice astenutosi (Cass. 23 febbraio 1981, n. 1093). Il carattere ordinatorio del provvedimento di rigetto e' stato affermato dalla Corte costituzionale con l'ordinanza del 19 gennaio 1988 n. 35. Tale provvedimento si differenzia da quello di rigetto della ricusazione, trattandosi quest'ultimo di provvedimento che ha come presupposto l'azione delle parti processuali, e' emesso all'esito di un procedimento incidentale ed assume la forma di ordinanza, di cui e' esclusa per legge l'impugnabilita'. Esclusione di impugnabilita' che come esposto e' stata ritenuta conforme a Costituzione anche dopo gli interventi sull'art. 111 della Costituzione. Il provvedimento del capo dell'ufficio ha carattere ordinatorio e natura di atto autorizzativo, ma pure connotato giurisdizionale per il fatto che esso incide sull'organizzazione del processo». Il parere allegato continuava con il richiamo alla sentenza della Cassazione sez. Unite del 19 settembre 2003, di conferma delle decisioni emesse in sede disciplinare: «a fronte del fondamentale rilievo che nel sistema costituzionale assumono i beni protetti dal dovere di astensione (l'imparzialita' e la terzieta' del Giudice)», deve ritenersi che «corrispondentemente, di grandissima intensita' deve essere l'impegno del magistrato nell'individuazione delle situazioni di pericolo e, con tutta la determinazione necessaria, delle possibilita' che l'ordinamento appresta per evitare il grave pregiudizio che la mancata astensione reca alla credibilita' della giurisdizione e del magistrato stesso», cosi' che, «se e' vero che la legge non offre rimedi al magistrato che abbia presentato istanza di astensione nei confronti del provvedimento che non la accolga, resta pur fermo che e' dovere del magistrato presentare l'istanza ed eventualmente reiterarla o comunque assumere anche le opportune iniziative, all'interno del sistema dell'amministrazione della giurisdizione (come ad esempio la segnalazione agli organi ai quali spetta la vigilanza), per evitare la lesione dei principi del giusto processo». Nella predetta nota interlocutoria questo decidente osservava come le richiamate delibere avevano oggetto in parte diverso dal caso in esame, il che giustificava la proposizione del quesito, sebbene dovesse ritenersi uguale la conclusione. Osservava infatti che: 1) com'e' noto, la Corte costituzionale, nell'integrare il testo dell'art. 37, da un lato ha posto la fattispecie nell'ambito dell'astensione obbligatoria e non dell'incompatibilita', dall'altro ha (testualmente) rilevato che «... alla stregua dei rapporti sistematici tra incompatibilita' e cause di astensione-ricusazione, queste ultime, ove si sostanzino nella manifestazione di un convincimento espresso in un diverso procedimento, sono caratterizzate dalla loro non idoneita' ad essere tipicizzate preventivamente dal legislatore, in quanto la loro stessa natura impone che sia il Giudice, nell'ambito della cornice generale delineata dalla legge, ad accertare in concreto e caso per caso l'effetto pregiudicante per l'imparzialita'. Sara' dunque l'elaborazione giurisprudenziale, cosi' come e' avvenuto per le cause di astensione e di ricusazione gia' previste nel codice, a definire i vari casi di applicazione di questa causa di ricusazione...»; 2) tale rinvio all'elaborazione giurisprudenziale di certo non facilitava il compito del singolo Giudice. Rilevante era, infatti, l'opzione specifica della Corte Cost. di inquadrare la problematica nell'istituto dell'astensione/ricusazione piuttosto che in quello, peraltro contiguo, dell'incompatibilita'; 3) andava tuttavia affermato che la fattispecie in esame non appartenesse ai casi «grigi» che pure potrebbero rinvenirsi nella pratica. In tanto, infatti, la scriminante di cui all'art. 384 c.p., riconosciuta da questo decidente quale Gup era applicabile, in quanto la condotta del C , qui imputato di calunnia, si assumeva come effettivamente sussistente proprio nella sentenza «pregiudicante». Ed infatti si diceva chiaramente nella sentenza del GUP ex art. 425 codice di procedura penale (imputazione di falsa testimonianza) : « ... In realta' e' risultato che, seguito di plurimi inviti, il C. G. si recava presso lo studio dell'Avv. D. B., proponendo una dilazione del pagamento, e asserendo di essere stato costretto dalle difficolta' economiche a denunciare l'assegno come smarrito. Veniva redatta pertanto una scrittura privata a mezzo della quale il C. definiva la propria esposizione debitoria a mezzo di un pagamento dilazionato». Per lo stesso assegno, come peraltro richiamato nella prefata sentenza n. 123 del 2016, si era aperto procedimento che questo Giudice aveva poi dismesso, ritenuta la propria incompatibilita', avvenuta medio tempore con un provvedimento specifico (prima non divenendo concreto il pericolo secondo il paradigma delineato dalla Corte costituzionale : «... va rilevato che non e' sufficiente, ai fini della individuazione dell'attivita' pregiudicante, che il Giudice abbia in precedenza avuto mera cognizione dei fatti di causa, raccolto prove, ovvero si sia espresso solo incidentalmente e occasionalmente su particolari aspetti della vicenda processuale sottoposta al suo giudizio ...», occorrendo una sentenza o anche un decreto o un'ordinanza che abbia deciso qualche questione attinente). Pertanto il Giudice, alla fine della nota interlocutoria: 1) reiterava la propria dichiarazione di astensione obbligatoria; 2) richiedeva al Presidente del Tribunale di trasmettere al CSM il seguente quesito, subordinatamente al permanere del suo avviso contrario «... se, in ordine al rapporto tra il Giudice e il capo dell'ufficio nell'ipotesi in cui il primo, rispetto a una determinato processo penale, dichiari di versare in una situazione di astensione obbligatoria ai sensi dell'art. 37 c.p.p., e laddove il capo dell'ufficio non aderisca alla valutazione fornita dal Giudice dichiarante: a) il predetto Giudice abbia il dovere di reiterare la propria dichiarazione, come sembra necessario; b) il Capo dell'ufficio debba limitarsi ad una presa d'atto della dichiarazione ovvero possa valutarla; c) nel caso che possa valutarla, come suggerisce la risposta al quesito da parte del CSM del 31 maggio 2006 (limitatamente al processo civile), quali siano gli effetti concreti di tale valutazione e in particolare, seppure argomentata da parte del Capo dell'ufficio α) sia mera espressione di un principio di leale collaborazione tra Giudice e Capo dell'ufficio, prevalendo in ogni caso la dichiarazione d'astensione del Giudice che ritiene di non aderire neppure all'argomentazione del Capo dell'ufficio ovvero β) vincoli, e se si' in che modo, il Giudice dichiarante». Seguiva poi una nota del Presidente del Tribunale che riteneva di investire, non si riesce ad apprezzare a che titolo, se non ai fini disciplinari (peraltro in alcun modo coltivati successivamente), rispetto ai quali nulla riteneva di specificare, della notizia del contrasto il Presidente di Corte d'Appello. Contestualmente intimava il decidente a prendere di nuovo in carico il processo e definirlo prontamente. Rilevava inoltre che con la nota di questo giudicante si richiamavano esclusivamente varie argomentazioni tutte incentrate sulla interpretazione della disposizione di' cui all'art. 51 c.p.c. che, ovviamente, disciplina i casi e le modalita' dell'astensione del giudice nei procedimenti civili, regolati dal suddetto codice di rito, e non anche quelli disciplinati dal codice di procedura penale, nella concreta fattispecie applicabile; che, infatti, l'art. 36 codice di procedura penale disciplina l'astensione del giudice nei procedimenti penali in modo del tutto diverso, atteso che da un lato prevede l'obbligatorieta' dell'astensione in tutti i casi ivi previsti, ivi compreso quello della dedotta esistenza di gravi ragioni di convenienza, e, dall'altro, al comma 3, espressamente prevede che in tutti tali casi la dichiarazione di astensione e' presentata al Presidente della corte o del tribunale che decide con decreto senza formalita' di procedura; richiamava il fatto che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, il decreto presidenziale che decide senza formalita' sulla dichiarazione di astensione e' sottratto ad ogni forma di gravame, sia per il principio di tassativita' delle impugnazioni, sia perche' si tratta di provvedimento meramente ordinatorio, di natura amministrativa e non giurisdizionale, i cui effetti rimangono limitati nell'ambito dell'ufficio, non potendosi ritenere che tale regime sia lesivo dei principi costituzionali di uguaglianza, tutela della difesa ed imparzialita' del giudice poiche' la parte interessata puo' proporre tempestivamente dichiarazione di ricusazione, la decisione in ordine alla quale e' emessa all'esito di una procedura svolta nel contraddittorio ed e' ricorribile per cassazione ex art. 127 c.p.p.; nel merito della fattispecie obbligatoria di astensione confermava il decreto da lui emesso in osservanza del suddetto art. 36 codice di procedura penale in data 30 settembre 2016 sulla dichiarazione di astensione trasmessagli in data 27 settembre 2016 dallo scrivente, «... peraltro sull'erroneo presupposto dell'aver giudicato sul medesimo reato per il quale doveva procedere, trattandosi nel primo procedimento del reato di falsa testimonianza e nel secondo (per il quale e' stata resa dichiarazione di astensione) del reato di calunnia ...». Riteneva anche che ... «il chiaro ed inequivoco dettato normativo non consente dubbi od incertezze interpretative e che pertanto appare del tutto ultronea, oltre che sicuramente irrituale, la «sollecitazione» al sottoscritto di trasmettere al CSM il quesito formulato dall'estensore della nota che, ove lo ritenga necessario, potra' direttamente interessare il suddetto CSM ovvero segnalare nelle competenti sedi la condotta del sottoscritto, ove ritenuta in qualche modo illegittima, come parrebbe dedursi da taluni passaggi della suddetta nota». Contestualmente disponeva, poi «... la trasmissione al Sig. Presidente della Corte di Appello delle Marche di copia del presente provvedimento e della nota del Presidente di sezione in data 24 gennaio 2016 per opportuna conoscenza e per le valutazioni di competenza, atteso il potenziale conflitto evidenziato nella suddetta nota che potrebbe coinvolgere i vertici di questo Tribunale». Faceva nuovamente riscontro il Giudice dichiarando: 1) la formale presa in carico, a seguito dell'ultima interlocuzione, del procedimento stesso, che nell'immediato sarebbe consistita nel fissare udienza di prosecuzione del processo innanzi allo scrivente; 2) che si era provveduto a far separare, in ossequio alle regole enucleabili tra l'altro dalla delibera CSM del 5 ottobre 2016 in ordine al regime di pubblicita' dei provvedimenti in materia di astensione, dal fascicolo attinente al procedimento penale, il carteggio intercorso a far tempo dalla nota dello scrivente del 24 gennaio 2017, in apposito sotto-fascicolo da conservarsi presso la Segreteria: salvo diverso intendimento, sullo specifico punto, dello stesso Presidente del Tribunale a SV, al quale lo scrivente non aveva difficolta' a riconoscere - sotto tale unico profilo - ogni decisione definitiva, trattandosi di competenze, per la loro natura, piu' specificamente appartenenti al Capo dell'Ufficio; 3) l'invio, ove possibile in giornata stesso, dello stesso quesito personalmente da parte di questo Giudice al CSM. Cio' posto, faceva peraltro presente che la questione, sia pur rilevante, non uscisse dall'ambito di normale confronto all'interno dell'ufficio giudiziario. Ribadiva la circostanza che si trattava di una «richiesta subordinata» (come si e' visto sopra, si «... 2) Richiede al Presidente del Tribunale di trasmettere al CSM il seguente quesito, subordinatamente al permanere del suo avviso contrario ...») e non di una sollecitazione, termine che evocherebbe la richiesta stessa quale conseguenza di chissa' quale omissione o inadempimento da parte dell'organo sovraordinato (laddove e' proprio l'ambito di incertezza interpretativa che postulava la necessita' di un quesito) ed in questo contesto la richiesta di trasmissione tramite il Presidente era da un lato una forma di cortesia, essendo senz'altro censurabile quantomeno a livello di correttezza dei rapporti interpersonali, inviare il quesito al CSM senza renderne edotto il Capo dell'Ufficio. Ma soprattutto, la causa di tale trasmissione del quesito al CSM tramite il Presidente del tribunale era da rinvenire in una ragione ben piu' sostanziale, e cioe' quella che - proprio per la complessita' della materia - la questione meritava una trattazione articolata da parte dello scrivente e tale articolazione avrebbe consentito di apprezzare, se del caso positivamente, da parte del Presidente le ragioni esposte. Anche nell'implicito, ma tutt'altro che nascosto, auspicio che cio' avvenisse, va rinvenuta la causa di tale modalita' indiretta ed eventuale della trasmissione del quesito. La richiesta, in questo senso, era anche il tentativo di risolvere un conflitto - non tra le persone ma tra gli orientamenti difformi che si possono rinvenire in tale materia - cercando di argomentare le ragioni della richiesta e di convincere sulla validita' della stessa. Il Csm rispondeva al quesito con nota del 22 febbraio 2018: «il dottor Cesare Marziali, Presidente di Sezione presso il Tribunale di Fermo, ha formulato il seguente quesito: «... se, in ordine al rapporto tra il giudice e il capo dell'ufficio nell'ipotesi in cui il primo, rispetto a una determinato processo penale, dichiari di versare in una situazione di astensione obbligatoria ai sensi dell'art. 37 c.p.p., e laddove il capo dell'ufficio non aderisca alla valutazione fornita dal giudice dichiarante: a) il predetto giudice abbia il dovere di reiterare la propria dichiarazione, come sembra necessario; b) il Capo dell'ufficio debba limitarsi ad una presa d'atto della dichiarazione ovvero possa valutarla; c) nel caso che possa valutarla, come suggerisce la risposta al quesito da parte del CSM del 31 maggio 2006 (limitatamente al processo civile), quali siano gli effetti concreti di tale valutazione e in particolare, seppure argomentata da parte del Capo dell'ufficio: a) sia mera espressione di un principio di leale collaborazione tra giudice e Capo dell'ufficio, prevalendo in ogni caso la dichiarazione d'astensione del giudice che ritiene di non aderire neppure all'argomentazione del Capo dell'ufficio ovvero; b) vincoli, e se si' in die modo, il giudice dichiarante». Il Consiglio Superiore della Magistratura, come ricordato anche dall'interpellante, ha gia' affrontato, per ben due volte, la questione con riferimento alle ipotesi di astensione del giudice civile. Nella prima risposta a quesito del 31 maggio 2006, il Consiglio aveva chiaramente riconosciuto un potere di valutazione in capo al dirigente dell'ufficio che non doveva, pertanto, limitarsi a prendere atto della dichiarazione di astensione del singolo giudice, ma doveva verificare la corrispondenza della fattispecie denunziata quale motivo di astensione a una di quelle previste dall'art. 51, comma 1, numeri. 1-5, del c.p.c. Si legge, infatti, nella predetta delibera: «Tanto premesso, rispondendo al quesito del magistrato richiedente, puo' affermarsi che il capo dell'ufficio investito della dichiarazione del motivo di astensione non puo' limitarsi ad una passiva ricezione ed alla presa d'atto di quanto dichiarato dal giudice. Il principio della terzieta' ed imparzialita' deve trovare, infatti, un necessario contemperamento con il principio del giudice naturale, anch'esso di livello costituzionale (art. 25 Cost.), di modo che il dirigente dell'ufficio investito della dichiarazione del motivo di astensione deve valutare la sussistenza delle circostanze dedotte a sostegno della dichiarazione stessa. Solo la puntuale corrispondenza della fattispecie denunziata con quelle previste dai numeri 1-5 dell'art. 51, comma 1, del codice di procedura civile legittima la sostituzione del magistrato e, quindi, la coerente conciliazione del principio di terzieta' e imparzialita' con quello di salvaguardia del giudice naturale. ln conclusione, il capo dell'ufficio di fronte alla dichiarazione di astensione del magistrato giudicante di una causa civile, con provvedimento adeguatamente motivato, deve: a) nel caso di astensione obbligatoria, verificare la corrispondenza della fattispecie denunziata quale motivo di astensione a una di quelle fissate dall'art. 51, comma 1, numeri 1-5, c.p.c; b) nel caso di astensione facoltativa, valutare la situazione di fatto rappresentata dal richiedente e le ragioni di convenienza ai fini dell'accertamento della possibilita' di violazione dell'imparzialita' e terzieta' della giurisdizione affermate dall'art. 11 Cost.. Inoltre, le valutazioni del capo dell'ufficio saranno dirette ad evitare, nell'interesse del buon andamento dell'ufficio, ingiustificate sottrazioni da parte dei giudici dalle cause loro assegnate con danno conseguente per l'organizzazione del lavoro e violazione del principio del giudice naturale». In data 16 aprile 2009, il Consiglio, nuovamente sollecitato sulla questione con un nuovo quesito formulato da altro magistrato, era invece giunto a conclusioni diverse escludendo, sostanzialmente, un controllo del dirigente. Si legge, infatti, nella predetta risposta a quesito: «Si osserva al riguardo che I'art. 51 c.p.c. prevede al primo comma i casi di astensione obbligatoria del giudice, e al secondo comma i casi di astensione facoltativa. Soltanto per questi ultimi e' prevista una procedura incidentale che investe la competenza del capo dell'ufficio, al quale il giudice infatti «puo' richiedere l'autorizzazione ad astenersi», mentre per i casi di astensione obbligatoria essa ha effetto in base alla sola dichiarazione del giudice che ritenga di ravvisare una situazione che l'imponga. In tal senso, oltre alla chiara lettera della norma, versa anche la giurisprudenza di legittimita', che con sentenza Cass. 23 febbraio 1981, n. 1093 ha precisato che «L'autorizzazione ad astenersi viene richiesta, e puo' essere concessa, solamente nell'ipotesi prevista dal secondo comma dell'art. 51 c.p.c, mentre nei casi elencati dal n. 1 al numero 5 dello stesso articolo il giudice, obbligato ad astenersi, ha, tutt'al piu', l'onere di' comunicare l'astensione al capo dell'ufficio, il quale non deve autorizzarla ma limitarsi a prender atto dell'astensione e a provvedere alla sostituzione del giudice astenutosi». Tale principio risulta ripetuto anche in tempi successivi nella giurisprudenza di legittimita' nelle rare occasioni in cui si e' dovuta occupare della questione (v. Cassazione 20 febbraio 1998, n. 12842), e risulta certo conforme a diritto. Ne discende, pertanto, che e' responsabilita' esclusiva del giudice quella di valutare la sussistenza delle ragioni di astensione obbligatoria previste dal primo comma dell'art. 51 codice di procedura penale (fra le quali vi e' quella dichiarata nel caso di specie dalla dott.ssa ...), non potendo il capo dell'ufficio disattenderne al riguarda le determinazioni ma dovendo esclusivamente prenderne atto e adottare i provvedimenti di conseguenza. E' altresi' evidente che le ragioni di' sussistenza di tale tipo di astensione sono rigorosamente ancorate al modello astratto previsto dalla legge, e pertanto sul magistrato chiamato alle necessarie valutazioni e determinazioni incombe anche ogni responsabilita' che possa ravvisarsi in merito ad eventuali abusi che possa compiere nel far cio'». Orbene, ritiene il Consiglio che, anche nel caso di specie, relativo, come detto, ad un'ipotesi di astensione del giudice penale riconducibile all'art. 37 codice di procedura penale come modificato dalla sentenza della Corte costituzionale 283/2000, debba essere confermato il principio indicato nella prima risposta a quesito del 31 maggio 2006 in quanto se e' pur vero che nel caso di astensione obbligatoria «e' responsabilita' esclusiva del giudice quella di valutare la sussistenza delle ragioni di astensione», deve, tuttavia, riconoscersi in capo al dirigente dell'ufficio la possibilita' di verificare la corrispondenza della fattispecie denunziata quale motivo di astensione a una di quelle previste dai codici di rito e cio' perche', come gia' chiarito nella precedente risposta a quesito, «il principio della terzieta' ed imparzialita' deve trovare (...) un necessario contemperamento con il principio del giudice naturale, anch'esso di livello costituzionale (art. 25 Cost.), di modo che il dirigente dell'ufficio investito della dichiarazione del motivo di astensione deve valutare la sussistenza delle circostanze dedotte a sostegno della dichiarazione stessa ...». Il Presidente del Tribunale aveva poi cura di' diffondere questa risposta a quesito tra tutti i magistrati addetti all'ufficio. Successivamente il procedimento, come sopra detto in carico allo scrivente, subiva un rinvio per la partecipazione dei difensori allo sciopero degli avvocati e veniva rinviato all'odierna udienza, proveniente dalla precedente udienza del 19 settembre 2018, ove il decidente prospettava la possibilita' di sollevare questione di legittimita' costituzionale, per una migliore preparazione delle parti pubbliche e private ove avessero voluto interloquire. Tanto premesso, ed essendo ovvia la rilevanza delle questioni di legittimita' costituzionale che si andranno ad esporre, in quanto si tratta di individuare i criteri legali secondo i quali possa o non possa trattare lo scrivente magistrato il presente procedimento, giova osservare, in diritto, quanto segue. § 1 - Se sia rilevante o meno, ai fini del decidere la presente questione di legittimita' costituzionale, l'effettiva competenza del consiglio superiore della magistratura nella materia. - Questo giudice ha deciso di porre un quesito al CSM, il quale ha avuto l'esito di cui sopra. Con cio', ovviamente, riteneva che tale organo avesse competenza pronunciarsi, per i motivi dallo stesso affermati gia' da 2006, - coinvolgendo la questione «... la competenza del Consiglio superiore della magistratura a rispondere al quesito, investendo esso materia attinente all'organizzazione della giurisdizione ...». Ma, ove tale competenza non sussista, sta di fatto che l'attuale problema riguarda uno stallo che gia' c'era prima che il quesito stesso fosse formulato. Sia l'argomentazione, invero scarna e quasi esclusivamente ripetitiva dei precedenti dello stesso CSM, sia i risultati a cui perviene la nota protocollo P 3476/2018, appaiono discutibili sotto diversi profili, ma un principio di correttezza e di leale collaborazione comporta che tale posizione del CSM non venga ulteriormente contrastata in via formale, magari proponendo un conflitto tra poteri dello Stato, peraltro dall'esperibilita' dubbia. Resta il fatto che tale decisione puo' essere presa come oggetto di valutazione, per quanto essa rappresenta nell'ambito dell'iter argomentativo formatosi sulla questione, e non quale atto formale in se' della procedura. La nota P 3476/2018 peraltro non rispondeva che in parte al quesito proposto dal giudice, il quale invece si faceva carico non solo di sapere se il Presidente del tribunale poteva o meno sindacare il contenuto della dichiarazione di astensione obbligatoria, ma quali ricadute vi fossero una volta che entrambi i soggetti, giudice rimettente da un lato e capo dell'ufficio dall'altro, non intendessero recedere dalle loro posizioni. In particolare, nella predetta nota csm P 3476/2018 non si rispondeva in alcun modo, come invece richiesto dall'articolato quesito di questo Giudice, ai seguenti quesiti: se il giudice avesse il dovere di reiterare la propria dichiarazione, come sembrava necessario. Posto infatti che il giudice fosse convito di tale dovere, l'inciso «come sembra necessario» contenuto nel quesito non era meramente retorico, ma attingeva proprio a quanto richiamato dal parere del 2006, il quale, come sopra visto, richiamava a sua volta la sentenza della Cassazione sez. Unite del 19 settembre 2003, di conferma delle decisioni emesse in sede disciplinare: «a fronte del fondamentale rilievo che nel sistema costituzionale assumono i beni protetti dal dovere di astensione (l'imparzialita' e la terzieta' del Giudice)», deve ritenersi che «corrispondentemente, di grandissima intensita' deve essere l'impegno del magistrato nell'individuazione delle situazioni di pericolo e, con tutta la determinazione necessaria, delle possibilita' che l'ordinamento appresta per evitare il grave pregiudizio che la mancata astensione reca alla credibilita' della giurisdizione e del magistrato stesso», cosi' che, «se e' vero che la legge non offre rimedi al magistrato che abbia presentato istanza di astensione nei confronti del provvedimento che non la accolga, resta pur fermo che e' dovere del magistrato presentare l'istanza ed eventualmente reiterarla o comunque assumere anche le opportune iniziative, all'interno del sistema dell'amministrazione della giurisdizione (come ad esempio la segnalazione agli organi ai quali spetta la vigilanza), per evitare la lesione dei principi del giusto processo». Con il che appare evidente che questa sentenza della Cassazione, resa in sede disciplinare, poneva l'accento su un preciso dovere di ogni magistrato di segnalare che una sua istanza fosse stata indebitamente disattesa dal capo dell'ufficio. Laddove, poi, andava certamente debitamente approfondito l'aspetto di un'effettiva gravita' del comportamento del capo dell'ufficio stesso; in ogni caso, con ricadute importanti nell'ambito dei rapporti interni all'ufficio, e, segnatamente, nell'ambito dei rapporti tra il Presidente di sezione ed il Presidente del tribunale, in un piccolo tribunale che ha una pianta organica di 13 unita' complessivamente: qui forse, ma non certo ai fini sottintesi dal Presidente del tribunale, non sembrava un fuor d'opera il riferimento, fatto nella nota di quest'ultimo del 27 gennaio 2017 alle «... valutazioni di competenza [del Presidente della corte d'appello], atteso il potenziale conflitto evidenziato nella suddetta nota che potrebbe coinvolgere i vertici di questo Tribunale». Che tutto cio' potesse essere al riparo del rischio di gravi disfunzioni, di fatto, dell'attivita' lavorativa nell'ambito dell'ufficio giudiziario, e' opinione molto ottimistica. Si badi che l'obbligo di segnalazione prospettato come sopra dalla Cassazione riguardava un'ipotesi in cui era stata rigettata dal Capo dell'Ufficio addirittura una richiesta di astensione c.d. facoltativa; se, nel caso che il Presidente del Tribunale potesse valutare la dichiarazione d'astensione obbligatoria, come suggerisce la risposta al quesito da parte del CSM del 31 maggio 2006 (limitatamente al processo civile), quali siano gli effetti concreti di tale valutazione e in particolare, seppure argomentata da parte del Capo dell'ufficio; se la valutazione che fa il Presidente del tribunale sia mera espressione di un principio di leale collaborazione tra giudice e Capo dell'ufficio, prevalendo in ogni caso la dichiarazione d'astensione del giudice che ritiene di non aderire neppure all'argomentazione (successiva, e ove esternata) del Capo dell'ufficio; ovvero se tale valutazione vincoli, e se si' in che modo, il giudice dichiarante. Veramente, a tale ultima domanda la risposta che si poteva ricavare dalla citata Cassazione sez. Unite del 19 settembre 2003 era, almeno in parte, molto chiara, cioe' il Giudice non «autorizzato» all'astensione deve uniformarsi e, se del caso, fare segnalazione disciplinare contro il suo Presidente del Tribunale. Quello che non si poteva ricavare da tale arresto giurisprudenziale era piuttosto quale sarebbe stata la sorte del fascicolo, proprio dal punto di vista «amministrativo», essendo ripetutamente sottolineata la natura amministrativa del procedimento per l'astensione, sia nel processo penale che nel processo civile. Si apre cosi' altro delicato scenario su conseguenze, per cosi' dire, prosaiche e banali ma estremamente rilevanti ai fini della buona organizzazione degli uffici giudiziari di cui all'art. 97 della costituzione. E tali conseguenze non possono che prospettarsi come segue: 1) il fascicolo rimane formalmente in carico al giudice che in tal modo aveva ritenuto il proprio dovere di astensione obbligatoria, la cancelleria ovviamente non potendo che uniformarsi alle disposizioni del Presidente del tribunale; 2) il fascicolo rischia di rimanere di fatto «orfano» anche su istanze urgenti ed importanti quali istanze su misure cautelari in atto ovvero richieste sopravvenute di misure cautelari da parte del pubblico ministero. Infatti appare un rimedio ben poco utile quello suggerito dalla cassazione, a fronte del seguente scenario: posto che l'astensione e' obbligatoria e supponendo che l'intimazione del capo dell'ufficio al giudice di tenere e trattare comunque il fascicolo sia chiaramente e palesemente illegittima, cio' non toglierebbe che il fascicolo dovrebbe essere trattato da un giudice nelle condizioni di grave pregiudizio da lui stesso segnalate e l'unica conseguenza sarebbe quella «punitiva» nei confronti del capo dell'ufficio, limitatamente all'ipotesi in cui egli abbia negato l'autorizzazione ad astenersi, nell'ipotesi di astensione obbligatoria, in maniera palesemente illegittima. Senza contare, infine, la considerazione che non sempre un contrasto del genere poteva indurre il giudice ad effettuare una segnalazione agli organi disciplinari, sul necessario presupposto di una chiara violazione di legge da parte del capo dell'ufficio (questo, e non altro, dice Cassazione sez. Unite del 19 settembre 2003). Infatti tale segnalazione appare quanto mai contraddistinta da pesantissimi oneri decisionali, con riferimento, a tacer d'altro, al rischio di un conflitto preoccupante per le sorti dell'intero ufficio (sino al trasferimento per incompatibilita' ambientale di uno dei due soggetti in contrasto) rispetto al quale il rischio dell'imparzialita' per un singolo procedimento, seppur importante, diveniva addirittura ampiamente recessivo, soprattutto in tutti quei casi di possibile opinabilita' delle questioni, le quali, e non sembri qui una contraddizione, rispetto quanto sopra affermato, spesso solo a posteriori risultano «chiare». E che tale opinabilita' delle questioni fosse materia tutt'altro che residuale ne da' la prova provata la visione delle contraddittorie e talora assolutamente incomprensibili, prese di posizione da parte del CSM sulla materia. Ci si riferisce, in particolare, al fatto che la delibera del CSM del 2006, imponendo la prevalenza «dell'autorizzazione» del Capo dell'Ufficio, trascura assolutamente quanto chiaramente detto, per il processo civile, nelle sentenze del 1981 e del 1998, su cui ci si soffermera' oltre. Ne' si dimentichi, infine, che Cassazione ss.uu. n. 21947/2004; prende in esame l'obbligo del giudice di segnalare un malgoverno, da parte del Capo dell'Ufficio, del potere di autorizzare l'astensione, proprio nell'ipotesi in cui piu' ampia e' la valutazione del Capo dell'Ufficio medesimo, e cioe' un'ipotesi in cui sussistono semplicemente «gravi motivi di convenienza». L'opinabilita' insita in molte ipotesi di astensione obbligatoria non distoglie, quindi, la Cassazione dal segnalare che anche in questi casi vi potrebbe essere luogo per denuncia disciplinare. § 2 - Se, ed in che modo, la procedura vigente per il processo civile possa fungere da tertium comparationis . - La risposta, per le considerazioni che seguono in questo paragrafo non solo deve essere positiva, ma si inserisce in un quadro per certi aspetti paradossale, poiche' e' previsto in caso di ipotesi di astensione obbligatoria un automatismo, e di conseguenza una tutela della valutazione del giudice che vige nel processo civile ma non nel processo penale. L'art. 51 codice di procedura civile ultimo comma prevede. In ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza, il giudice puo' richiedere al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi ... L'art. 78 disp.att.c.p.c. prevede Il giudice istruttore, che riconosce l'esistenza di un motivo di astensione a norma dell'art. 51 del codice, deve farne espressa dichiarazione oppure istanza scritta al Presidente del tribunale appena ricevuto il decreto di nomina ... L'art. 36 del codice di procedura penale prevede. 1. Il giudice ha l'obbligo di astenersi: ... 3. La dichiarazione di astensione e' presentata al Presidente della corte o del tribunale che decide con decreto senza formalita' di procedura. Se si pone l'attenzione sull'ipotesi di astensione obbligatoria, nell'uno e nell'altro processo gia' il tenore letterale da' conto di una netta differenza; Solo nell'ipotesi di astensione c.d. facoltativa il giudice civile chiede al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi, non cosi' nel caso di astensione obbligatoria. L'art. 51 ultimo comma va letto in combinato, sotto il profilo da ultimo messo in luce, con l'art. 78 disp. Att., in cui all'astensione obbligatoria corrisponde l'espressa dichiarazione e all'astensione facoltativa l'stanza scritta, la quale non puo' che essere rivolta che al Capo dell'ufficio. E cio', nel suo nitore letterale, va affermato a prescindere da diverse interpretazioni che avrebbero voluto accomunare l'endiade dichiarazione/istanza quale informe mero veicolo di richieste al capo dell'ufficio. A non dissimili approdi giunge la giurisprudenza. Chiaro e netto il primo dei due arresti della cassazione civile sopra citati: «Va osservato, anzitutto, che il provvedimento del Presidente del Tribunale di Lanciano e' del tutto abnorme. Invero l'autorizzazione ad astenersi viene richiesta e puo' essere concessa solamente nella ipotesi prevista dal secondo comma dell'art. 51 cod. proc. civ., mentre nei casi elencati dal n. 1 al n. 5 stesso articolo il Giudice, obbligato ad astenersi, ha, tutt'al piu', l'onere di comunicare l'astensione al capo dell'ufficio, il quale non autorizza ma si limita a prendere atto della astensione e, se e' necessario, provvede a sostituire la persona del Giudice». Significativo e' l'inciso della Cassazione, la quale addirittura censura come atto abnorme l'autorizzazione data dal Presidente del Tribunale di' Lanciano in ipotesi di astensione obbligatoria, dovendo semmai essere il provvedimento corretto quello di una mera presa d'atto. Nello stesso senso Cassazione Sez. 1, n. 1842 del 20 febbraio 1998: «...E' opportuno, peraltro, rilevare che l'autorizzazione ad astenersi prevista dal comma 2^ dell'art. 51 codice di procedura civile - alla cui omissione sembra volersi riferire il ricorrente - deve essere dal giudice richiesta al capo dell'ufficio nell'ipotesi di astensione per «gravi ragioni di convenienza» con implicita esclusione nell'ipotesi di astensione obbligatoria prevista nei casi elencati dal lo C. (numeri 1-5) dello stesso articolo. L'onere di comunicare l'astensione deve essere osservato solo se alla designazione di altro giudice deve provvedere il capo dell'ufficio». Di qui l'evidente errore in cui incorre la risposta a quesito fornita dal CSM il 31 maggio 2006, ove, proprio in un caso di prospettato obbligo di astenersi da parte del giudice ai sensi dell'art. 51, comma l, n. 3), il predetto organo dichiarava che il Capo dell'Ufficio deve: a) nel caso di astensione obbligatoria, verificare la corrispondenza della fattispecie denunziata quale motivo di astensione a una di quelle fissate dall'art. 51, comma 1, numeri 1-5, codice di procedura civile (v. sopra). Assai diversa, stante il tenore letterale dell'art. 36 sopra richiamato, la giurisprudenza penale nell'interpretare l'art. 36 codice di procedura penale: Cassazione Pen. Sez. 1, n. 40159 del 2009. « ... come questa Corte ha gia' avuto modo di affermare (v., per tutte, Cassazione 2^ 8 febbraio 2000, Z, RV 215700), il decreto presidenziale che decide senza formalita' sulla dichiarazione di astensione e' sottratto ad ogni forma di gravame, sia per il principio di tassativita' delle impugnazioni, sia perche' si tratta di provvedimento meramente ordinatorio, di natura amministrativa e non giurisdizionale, i cui effetti rimangono limitati nell'ambito dell'ufficio; ne' puo' ritenersi che tale regime sia lesivo in alcun modo dei principi costituzionali di uguaglianza, tutela della difesa ed imparzialita' del Giudice, potendo la parte interessata proporre tempestivamente dichiarazione di ricusazione, la decisione in ordine alla quale e' emessa all'esito di una procedura svolta nel contraddittorio ed e' ricorribile per Cassazione ai sensi dell'art. 127 c.p.p. ...». Cassazione Pen . Sez. 2, n. 16345 del 10 febbraio 2012. Il provvedimento con cui il Presidente del tribunale revoca il suo precedente decreto relativo alla decisione sulla dichiarazione di astensione si sottrae, al pari dell'atto revocato, ad ogni forma di gravame, sia per il principio di tassativita' delle impugnazioni che per la sua natura non giurisdizionale. Sez. 6, Sentenza n. 776 del 1998. «La questione sulla ammissibilita' della impugnazione del decreto presidenziale, che decide sulla astensione del Giudice, deve essere decisa senz'altro in senso negativo. La «ratio» di assicurare il valore della imparzialita' del Giudice, che accomuna gli istituti della astensione e della ricusazione, non ne comporta anche la unitaria disciplina, data la loro diversa natura giuridica ed il diverso sviluppo, sul piano procedimentale, del relativo «iter». Infatti, mentre il procedimento di ricusazione assume tutte le caratteristiche del procedimento incidentale di natura giurisdizionale - diretto a verificare le condizioni di regolarita' di un determinato rapporto processuale mediante la iniziativa delle parti legittimata a chiedere la rimozione del Giudice sospetto, in procedimento camerale ex art. 127 cpp, nel quale la decisione spetta al Giudice collegiale di grado superiore a quello che si intende ricusare - la procedura semplificata prevista per l'astensione, rimasta sostanzialmente immutata rispetto a quella del previgente codice di rito del 1930, si caratterizza per l'assenza di particolari formalita', in quanto sulla istanza di astensione la decisione e' adottata «con decreto senza formalita' di procedura» (art. 36, terzo comma, cpp); senza che debbano essere sentite le parti del processo principale e lo stesso Giudice, che ha dichiarato di astenersi, al quale dovra' soltanto essere comunicata la decisione assunta, affinche' lo stesso possa continuare ad esercitare le sue funzioni nel processo o debba, invece, astenersene per essere stato sostituito. Di conseguenza - secondo quanto espressamente rileva la relazione ministeriale in adesione ad analoga conclusione, cui perviene anche la dottrina - quello che si instaura tra il Giudice astenutosi e l'organo decidente sulla relativa istanza costituisce un rapporto giuridico di carattere interno all'ufficio giudicante; di natura amministrativa e non giurisdizionale; che non coinvolge le parti del procedimento penale, le quali non sono chiamate ad interloquire ... omissis ... La inoppugnabilita' del decreto che decide sulla dichiarazione di astensione nonche' il carattere semplificato ed informale della relativa procedura non appaiono neppure in contrasto con le norme degli articoli 3 e 24, secondo comma, Cost., in riferimento alle quali il ricorrente ha proposto eccezione di costituzionalita'. Quanto al contrasto con l'art. 3 Cost., deve ribadirsi - secondo quanto questo Giudice di legittimita' ha gia' stabilito (Cass. pen. , 23 dicembre 1996, ric. M. T., m. CED 207.02 6) - che il principio di eguaglianza o ragionevolezza del primo comma della suddetta norma primaria non puo' dirsi violato, poiche' in base alla natura giurisdizionale del procedimento di ricusazione ed alla natura amministrativa interna del procedimento di astensione appare logicamente giustificata la differente disciplina dei due procedimenti e del distinto regime di impugnabilita' del provvedimento decisorio. La violazione dell'art. 24, secondo comma, Cost., sotto il profilo della limitazione del diritto di difesa, viene invocata dal ricorrente in base alla considerazione della definitivita' e della insindacabilita' del provvedimento presidenziale sulla dichiarazione di astensione, che impedirebbe all'imputato di far valere il proprio diritto ad essere giudicato da un Giudice imparziale precostituito per legge; ma anche detta prospettazione non puo' essere condivisa. Invero - data la funzione preventiva cui assolve l'istituto della astensione e della quale e' espressione la norma dell'art. 39 cpp, che demanda innanzitutto alla obbligatoria, personale e spontanea iniziativa del Giudice la rimozione di cause di incompatibilita' - nel caso in cui la dichiarazione di astensione viene accolta, nessun pregiudizio puo' derivare all'imputato dalla definitivita' del provvedimento e dalla sua insindacabilita' risultandone tutelata, con la integrita' ed il prestigio della giurisdizione, la imparzialita' e la indipendenza del Giudice. Nel caso in cui, invece, la dichiarazione di astensione non venga accolta, non per cio' deriva all'imputato il pregiudizio di una minorata sua difesa a fronte di una situazione di sospetto di parzialita', in quanto, la pronuncia negativa sulla astensione non impedisce, relativamente alla medesima causa di denunciata incompatibilita', di provocarne un successivo esame a seguito di istanza di ricusazione non preclusa, in procedimento formale ex art. 127 cpp, rispettoso del principio del contraddittorio e del diritto di difesa ex art. 24, secondo comma, Cost. ...» § 3 - Le pronunce della Corte costituzionale sul punto - Circa la specifica problematica che qui si affronta, non sussistono precedenti in termini. Peraltro si possono prendere alcuni spunti dall'articolata pronuncia resa con ordinanza n. 86 del 2013. Cosi' il testo dell'ordinanza che riporta di seguito la posizione del Giudice e delle altre parti. «Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo ha sollevato: a) in riferimento agli articoli 3, 24, 25, 101 e 111 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 36, comma 1, lettera g), del codice di procedura penale, «nella lettura in combinato disposto con l'art. 34» dello stesso codice, «nella parte in cui prevede che, nel caso in cui vi sia «incompatibilita' del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento», il giudice debba formalizzare richiesta di astensione in luogo dell'attivazione di automatismi di tipo tabellare preordinati dall'ufficio»; b) in riferimento agli articoli 3, 24, 25, 101 e 111 Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art. 36, comma 3, cod. proc. pen., «nella lettura in combinato disposto con l'art. 34» dello stesso codice, «nella parte in cui prevede che, nel caso in cui vi sia «incompatibilita' del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento», il Presidente del Tribunale possa «decidere» discrezionalmente sull'astensione imponendo al giudice del rito abbreviato la prosecuzione del giudizio nel caso in cui lo stesso abbia definito l'udienza preliminare con il rinvio a giudizio di co-imputati per un reato associativo e/o plurisoggettivo»; c) in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art. 36 [recte 34], comma 2, cod. proc. pen. , «nella lettura in combinato disposto con l'art. 34» [recte 36] dello stesso codice, «nella parte in cui le parole «Non puo' partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare» siano interpretate nel senso di attribuire al giudice - che ha deciso l'udienza preliminare con il rinvio a giudizio di imputati per un reato associativo e/o plurisoggettivo - la possibilita' di decidere anche il giudizio abbreviato nei confronti degli altri imputati per la stessa rubrica, essendo questi ultimi privati della possibile formula assolutoria «perche' il fatto non sussiste»; d) in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 Cost., questione di legittimita' costituzionale dell'art. 36 [recte 34], comma 2, cod. proc. pen. , «nella lettura in combinato disposto con l'art. 34» [recte 36] dello stesso codice, «nella parte in cui le parole «Non puo' partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare» siano interpretate nel senso di permettere, comunque, la partecipazione al giudizio abbreviato da parte dello stesso giudice dell'udienza preliminare, che aveva gia' prima deciso, con il rinvio a giudizio e nei confronti di altri co-imputati, il processo relativo alla imputazione per reato associativo, plurisoggettivo e/o a partecipazione necessaria», Nella vicenda, complessa in fatto anche se compendiabile in alcuni specifici punti di diritto, secondo alcuni commentatori, il rimettente vorrebbe travolgere il «combinato disposto» dell'art. 36, comma 1, lettera g), e dell'art. 34 c.p.p., nella parte in cui prevede che, qualora vi sia incompatibilita' determinata da atti compiuti nel procedimento, il giudice debba formalizzare richiesta di astensione in luogo dell'attivazione di automatismi di' tipo tabellare preordinati dall'ufficio. L'attuale regime, fondato sulla decisione del presidente del Tribunale o della Corte di appello, violerebbe il principio di indipendenza (art. 101, secondo comma, Cost.), perche', «trasforma un giudice soggetto soltanto alla legge in un giudice sottomesso alla facolta' di un Capo dell'Ufficio condizionando la sua liberta' di giudizio e di coscienza». Si aggiungerebbe la lesione dei principi e dei diritti sanciti dagli articoli 3, 24, 25, primo comma, e 111 della Costituzione. Con un secondo quesito, e con riferimento agli stessi parametri costituzionali, il rimettente propone in sostanza di conservare per il capo dell'ufficio il potere di valutare la dichiarazione di astensione dovuta ad incompatibilita' (avuto specifico riguardo al giudizio abbreviato su fatti gia' valutati, per altri imputati, con il rinvio a giudizio), escludendone per altro ogni connotato di discrezionalita'. Il presidente dovrebbe limitarsi a prendere atto che il giudice non ritiene di dovere e poter celebrare un dato giudizio per ragioni di incompatibilita'. E qui e' stato acutamente osservato in dottrina che in questo caso, che e' assai simile a quello presente, resterebbe sullo sfondo, inesplorato, il tema della procedura da seguire per il caso che, ad avviso del dirigente dell'ufficio, l'incompatibilita' non sussista. Solo che qui si tratterebbe di astensione obbligatoria e non di incompatibilita'. Seguendo il percorso della decisione della Corte, «[Per il giudice rimettente] ... e' «evidente che il giudice (id est), con il rinvio a giudizio (lo dice la stessa parola), ha giudicato ed ha, quindi, espresso valutazioni di merito sull'accusa», e «tuttavia, non basta questa ragionevole constatazione a dare tutta la forza necessaria all'eccezione di (il)legittimita' costituzionale per la semplice ragione che il codice di procedura penale - al suo art. 34, comma 2, ben prevede l'incompatibilita' gia' in modo espresso: non si puo' chiedere, infatti, la declaratoria di incostituzionalita' di qualcosa che si assume non prevista allorche' essa e', invece, prevista» ... che, restando al giudice il solo strumento dell'astensione, in caso di rigetto della relativa dichiarazione, lo stesso dovrebbe procedere nonostante la sua stessa volonta' contraria; che il duplice paradosso riguardante «un'impossibilita' che diventa dovere» e che «fa, di una facolta' concessa, una coazione» rappresenterebbe una «patologia» al cui superamento sarebbe indirizzata la questione di legittimita' costituzionale sollevata dal rimettente ... «nessuna norma prevede la possibilita' di rigetto dell'astensione» da parte del Presidente della corte o del tribunale, posto che il riferimento al «decide» contenuto nell'art. 36, comma 3, codice di procedura penale «non per forza indica una facolta' di reiezione», ma avrebbe collocazione nel quadro delle prese d'atto e non nel contesto delle facolta', soprattutto qualora l'astensione non si correli ad una condizione personale del giudice, ma alla rigida osservanza della legge; che «lontani da questa logica si perviene al paradosso di un giudice che assume di non poter procedere per evitare la violazione di una legge ed il suo superiore che lo obbliga assumendo che quella legge non sarebbe, in realta', violata», sicche', qualora l'astensione derivi da un'incompatibilita' prevista dalla legge, «non vi puo' essere discretivita' accoglitiva»; che la violazione di questo principio inciderebbe sul diritto di' tutti i cittadini ad avere uguale trattamento ed un giudice naturale precostituito per legge ... omissis ... si chiede il rimettente se possa dirsi terzo, imparziale e attore di un giusto processo il giudice che, avendo deciso il rinvio a giudizio di tre su cinque imputati (cosi' implicitamente suffragando l'ipotesi della sussistenza della circostanza aggravante indicata), proceda nel giudizio abbreviato richiesto dagli altri due coimputati, avendo gia' affermato in sede preliminare la compartecipazione delle cinque persone nel reato ... omissis ... ne' potrebbe ritenersi che il rispetto della legge «sia quello di tipo militare o amministrativo ossia di un organo gerarchizzato che si acquieta davanti alla scelta di un suo superiore anche se essa e' visibilmente contraria a quella suggerita dalla sua interpretazione delle norme e dalla sua coscienza»; che, diversamente interpretata, la norma sull'astensione sarebbe contraria all'ispirazione della Carta fondamentale; che ulteriori profili di illegittimita' costituzionale si riferirebbero agli articoli 3, 24, 25 e 111 Cost.; che anche con riguardo all'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, all'inviolabilita' della difesa, al giudice naturale e al giusto processo ... omissis ... E' intervenuto nel giudizio di legittimita' costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata; che, anche nel caso di astensione obbligatoria, il dirigente dell'ufficio non potrebbe limitarsi ad una passiva ricezione e presa d'atto della dichiarazione del giudice, in quanto l'art. 36 cod. proc. pen. sarebbe ispirato alla necessita' di contemperare i principi di terzieta' e di imparzialita' con quello, di pari rilievo costituzionale, del giudice naturale precostituito per legge, sicche' sarebbe fondamentale riconoscere al dirigente dell'ufficio la facolta' di valutare la sussistenza delle circostanze dedotte a sostegno della dichiarazione stessa; che la previsione normativa della necessaria valutazione del dirigente dell'ufficio sarebbe diretta ad evitare ingiustificate sottrazioni, da parte dei giudici, dalla trattazione di cause loro assegnate; che, pertanto, da un lato, andrebbe escluso che il presidente del tribunale in relazione ad un motivo di astensione obbligatoria possa decidere discrezionalmente se sostituire o meno il giudice astenutosi, dall'altro, non potrebbe essergli legittimamente sottratto il sindacato circa la sussistenza dei presupposti invocati nella dichiarazione di astensione, proprio per scongiurare il pericolo di dichiarazioni non fondate e pretestuose ... omissis ... che la motivazione dell'ordinanza di rimessione, inoltre, farebbe trasparire il dubbio che il rimettente cerchi di utilizzare in modo improprio e distorto l'incidente di costituzionalita' al fine di ottenere un inammissibile avallo interpretativo «finalizzato alla regolamentazione dei propri rapporti con il Capo dell'ufficio» ... omissis ... che, osserva ancora l'Avvocatura dello Stato il pregiudizio per l'imparzialita' del giudice deriva da attivita' compiute in un procedimento diverso, il principio del giusto processo trova attuazione mediante i piu' duttili strumenti dell'astensione e della ricusazione, anch'essi preordinati alla salvaguardia delle esigenze di imparzialita' della funzione giudicante, ma secondo una logica a posteriori e in concreto, senza oneri preventivi di organizzazione delle attivita' processuali ... che, infine, l'Avvocatura dello Stato richiama l'ordinanza n. 123 del 1999 della Corte costituzionale e osserva che dell'eventuale ingiustizia del trattamento subito con il decreto presidenziale non ci si potrebbe dolere in sede di giudizio incidentale di costituzionalita'. Infine, la posizione della Corte «... nell'enunciare la terza e la quarta questione l'ordinanza di rimessione ha fatto riferimento per errore all'art. 36, comma 2, cod. proc. pen., anziche' all'art. 34, comma 2, codice di procedura penale (nonche', subito dopo, all'art. 34 anziche' all'art. 36 cod. proc. pen.): infatti l'art. 36, comma 2, disciplina fattispecie del tutto estranee alle questioni in esame, mentre il periodo testualmente riportato dal rimettente e' contenuto nel comma 2 dell'art. 34 cod. proc. pen. , sicche', anche alla luce della motivazione dell'ordinanza, tali questioni devono intendersi riferite al «coinbinato disposto» degli articoli 34, comma 2, e 36 cod. proc. pen.; che l'eccezione non e' fondata; che, infatti, poiche' le questioni sono state sollevate nel corso del giudizio penale dallo stesso giudice che procede, la natura giuridica del provvedimento del dirigente dell'ufficio che decide sulla dichiarazione di astensione, quale che essa sia, non assume alcun rilievo ... omissis ... l'istituto dell'incompatibilita', si riferisce a situazioni di pregiudizio per l'imparzialita' del giudice che si verificano all'interno del medesimo procedimento (sentenze n. 283 e n. 113 del 2000 e ordinanza n. 490 del 2002) e concernono percio' la medesima regiudicanda (sentenza n. 186 del 1992), sicche' esso non comprende l'ipotesi del giudice che, dopo aver disposto il rinvio a giudizio di alcuni imputati, procede con il rito abbreviato nei confronti dei coimputati del medesimo reato; che in questa ipotesi infatti ci si trova in presenza di diversi procedimenti, destinati, dopo la separazione, alcuni alla successiva definizione dibattimentale e altri alla trattazione nelle forme del giudizio abbreviato, che rispetto a questi ultimi, percio', non si determina una situazione di incompatibilita' ... omissis ... «pur non potendo escludersi che, per il peculiare atteggiarsi delle singole fattispecie, l'attivita' che il giudice abbia compiuto in un precedente procedimento possa determinare un pregiudizio alla sua imparzialita' nel successivo procedimento a carico di altro o di altri concorrenti, in simili casi - al di la' delle ipotesi particolari che hanno dato luogo alle sentenze n. 371 del 1996 e n. 241 del 1999 - soccorre sia l'art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen., nell'interpretazione non restrittiva alla quale vincola il principio del giusto processo (sentenza n. 113 del 2000), sia l'art. 37 cod. proc. pen., come risultante dalla sentenza n. 283 del 2000 di questa Corte, attribuendosi in tal modo ai piu' duttili strumenti dell'astensione e della ricusazione il compito di realizzare il principio del giusto processo attraverso valutazioni caso per caso e senza oneri preventivi di organizzazione delle attivita' processuali» (ordinanza n. 441 del 2001, in una fattispecie analoga a quella del giudizio a quo), sicche', in ogni ipotesi, «lo strumento di tutela contro l'eventuale pregiudizio all'imparzialita' del giudice - pregiudizio da accertarsi in concreto - derivante da una sua precedente attivita' compiuta in un separato procedimento nei confronti di coimputati del medesimo fatto-reato, non puo' essere ravvisato in ulteriori pronunce sull'art. 34, comma 2, cod. proc. pen. ma deve essere ricercato nell'ambito degli istituti dell'astensione e della ricusazione» (ordinanza n. 441 del 2001); che, pertanto, «tenuto conto della diversa sfera di operativita' degli istituti dell'incompatibilita' e dell'astensione-ricusazione, egualmente preordinati alla piena tutela del principio del giusto processo» (ordinanza n. 367 del 2002), la terza e la quarta questione sono manifestamente infondate. § 4 - I profili di illegittimita' costituzionale del sistema: le conseguenze dello stallo che deriva dalla persistente difformita' di valutazione tra giudice e il capo dell'ufficio in relazione al buon andamento degli uffici giudiziari - Partiamo dal presupposto che vi sia un'ipotesi semplice e piana di dovere di astensione del giudice ai sensi dell'art. 37 del codice di procedura penale, cosi' come modificato dalla nota sentenza della Corte costituzionale numero 286 del 2000. E diamo, per un momento, per scontato il fatto che tale ipotesi semplice e piana di astensione sia costituita proprio dalla fattispecie in esame. Un giudice, nella veste di GUP, pure emettendo sentenza favorevole all'imputato nei termini sopra richiamati, dice che in realta' e' rimasto accertato che l'imputato stesso ha falsamente dichiarato lo smarrimento di un assegno, rendendo quella che obiettivamente e' una falsa testimonianza in un processo civile. Lo stesso giudice, in veste di giudice dibattimentale, si trova a decidere se lo stesso imputato abbia commesso calunnia denunciando lo smarrimento di un assegno. Pur essendovi altra sentenza resa dallo stesso giudice, nella quale viene affermato che, in realta', l'imputato aveva riconosciuto «di essere stato costretto dalle difficolta' economiche a denunciare l'assegno come smarrito». Di fronte a questa situazione, non si vede come si possa dire seriamente che l'imputato o il suo difensore attendano serenamente la decisione del giudice. E gia' qui, a seguito di questa banale osservazione, si vede quanto debole si mostri il tradizionale insegnamento secondo il quale la materia coinvolge solo rapporti interni all'ufficio giudiziario, e secondo la quale, semmai, gli interessi dell'imputato potranno essere adeguatamente tutelati mediante la procedura di ricusazione, quest'ultima a carattere giurisdizionale. Ma, in questo caso, appare evidente che l'istanza di ricusazione: 1) rischierebbe di essere proposta quasi sempre fuori termine: se infatti la dichiarazione di astensione obbligatoria la precede ed e' frustrata nei modi che abbiamo descritto, nel frattempo saranno decorsi i termini. Nel caso in esame la notizia per la parte dell'ipotesi di astensione obbligatoria e' inutilmente decorsa nelle more dell'interlocuzione tra questo giudice ed il presidente del tribunale proprio sull'effettiva sussistenza di tale obbligatorieta'; 2) in ogni caso, l'istanza di ricusazione, com'e' noto, comporta una «tensione» nell'ambito del processo che non sempre la difesa, comprensibilmente, accetta di accollarsi; 3) laddove, poi, la ricusazione sia tempestivamente proposta, l'intera procedura, di carattere giurisdizionale come tutti ammettono, rischia di essere bloccata da una sopravvenuta «dichiarazione» (o meglio, «istanza»?) del giudice; 4) sarebbe poi lecito domandarsi se il procedimento giurisdizionale nell'interesse della parte, bloccato nelle forme appena esposte al punto precedente, sia conforme ai principi di ragionevolezza e di rispetto della giurisdizione, nella misura in cui il capo dell'ufficio «accoglie» questa astensione. O, per dirla in forma grammaticalmente piu' corretta, accoglie la «dichiarazione» di astensione. Come poi si possa «accogliere», mediante un atto amministrativo decisorio, senza formalita' e senza neppure la necessita' di specifica motivazione, una «dichiarazione», non e' dato di sapere, laddove, appunto, non si intenda tale dichiarazione come istanza, sulla quale si puo' «decidere» (art. 36 comma quarto) o, per l'appunto, «accogliere l'astensione». Ma questi sono ancora problemi minori. Si pensi, infatti, all'ipotesi in cui a seguito o meno di un interlocuzione, piu' o meno articolata, tra giudice ed il capo dell'ufficio, il capo dell'ufficio disponga autoritativamente la trattazione del procedimento in capo al giudice il quale abbia dichiarato la propria astensione obbligatoria. Or bene, se il predetto giudice, convinto della necessita' di astenersi obbligatoriamente in virtu' dei principi costituzionali di' terzieta', imparzialita', principio del giudice naturale, eccetera, ritenga ancora la validita' delle argomentazioni esposte a sostegno della sua dichiarazione di astensione, potra': 1) trattare il processo e, ove ne ricorrano le condizioni, denunciare disciplinarmente il capo dell'ufficio per il suo illegittimo comportamento; 2) non trattare il processo e, ove ne ricorrano le condizioni, denunciare disciplinarmente il capo dell'ufficio per il suo illegittimo comportamento; 3) non trattare il processo e, a seguito di cio', essere denunciato disciplinarmente dal capo dell'Ufficio. Si dira', come osservato indirettamente dai commentatori, che, in questi casi di conflitto, non esistono soluzioni in grado di eliminare ogni inconveniente. Ma e' anche vero che, se l'errore e' in capo al giudice, oltre alle considerazioni che verranno fatte al paragrafo successivo, l'assegnazione al altro giudice, nel rispetto delle regole tabellari, sara' rispettosa delle regole di predeterminazione che presiedono ai principi del giudice naturale, della terzieta'. Se poi il giudice dichiarante erra per colpa grave, lo spostamento del processo, che si realizzerebbe automaticamente a seguito della sua mera dichiarazione avrebbe meno inconvenienti rispetto all'errore speculare in cui potrebbe invece incorrere il Capo dell'Ufficio, dal momento che, in ogni caso, nella prima ipotesi l'assegnazione avverrebbe secondo criteri obiettivi. E tanto poco appare eterodossa tale soluzione) che avverrebbe ne' piu' ne' meno quanto avviene nel processo civile. Insomma, segnalare queste anomalie ed evidenziare i punti di crisi che attraversa il processo ove non regolato da nonne al tempo stesso rispettose della logica e dei diritti fondamentali fa apparire del tutto gratuito «... il dubbio che il rimettente cerchi di utilizzare in modo improprio e distorto l'incidente di costituzionalita' al fine di ottenere un inammissibile avallo interpretativo «finalizzato alla regolamentazione dei propri rapporti con il Capo dell'ufficio» ...» come non molto elegantemente adombrato dall'Avv. Dello Stato nel procedimento definito con l'ord. Corte. Cost. n. 86 del 2013, sopra richiamata. § 5 - I profili di illegittimita' costituzionale del sistema: «il giudice dichiarante» e «giudice istante»; la giurisdizione ed i modi di «amministrare» la giurisdizione - Il Giudice prende visione del fascicolo, valuta un'ipotesi di astensione obbligatoria e fa la relativa «dichiarazione». Che tutto questo sia atto di un procedimento amministrativo e' opinione assolutamente prevalente, ma tutt'altro che convincente. Che il presidente del Tribunale presieda al corretto svolgimento della distribuzione del lavoro giudiziario nell'ambito dell'ufficio e' senz'altro vero, ma neppure va dimenticato che tale affermazione viene da lontano, in un tempo in cui non vigevano effettivamente le garanzie di equa distribuzione degli affari, se non rimessi «all'equo e insindacabile apprezzamento dei capi degli uffici». Nell'odierno sistema tabellare il capo dell'Ufficio deve semmai controllare il rispetto delle regole tabellari, che egli stesso concorre principalmente a fognare, e dell'Ordinamento Giudiziario. Compito tutt'altro che semplice e gia' bastevole per assorbire le sue risorse. Ne' si puo' piu' ritenere che distribuire gli affari giurisdizionali sia funzione che possa risolversi secondo criteri amministrativi interni. Ed e' molto riduttivo affermare che solo nel caso venga attivata la procedura di ricusazione la questione divenga di interesse generale ed attinente alle garanzie costituzionali del singolo soggetto: si sono trattati sopra i limiti di questo meccanismo. Pertanto non appare piu' sostenibile l'insegnamento tradizionale, e la preminenza del capo dell'ufficio sta o cade con esso. Ma, se viene meno, non puo' che riespandersi in tal modo il necessario rispetto della funzione del giudice soggetto soltanto alla legge ecc. Se si accede a queste prospettive, va rigettata con forza la tesi di taluni commentatori all'ord. n. 86/2013 della Corte: la «pretesa» carenza di garanzie riguarderebbe piu' che altro l'interesse del giudice (sembra di capire quale soggetto dedito agli interessi di se' medesimo, addirittura quale persona fisica, non quale parte del processo, e meno che meno quale garante di legalita'), e non certo quello delle parti processuali, almeno per il caso, concretamente piu' rilevante, che venga disconosciuta una situazione effettiva di incompatibilita' (l'Ordinanza di rimessione del GUP di Palermo tende effettivamente a sovrapporre i profili di incompatibilita' e di' astensione obbligatoria, la risposta della Corte non tollera questa mancanza di messa a fuoco, ma, alla fine riconosce che potrebbero soccorrere altri rimedi rinvenibili proprio, fra l'altro nell'art. 37 nella formula vigente dopo la sentenza additiva del 2000). Si e' accennato sopra anche all'insufficienza, in via generale, del fatto che le parti possano ricusare il giudice. Oltre a quanto sopra detto, appare sintomatica la prevalenza dell'aspetto amministrativo su quello giurisdizionale (cfr. art. 39 c.p.p.). Ne' hanno migliore dignita' argomentativa le affermazioni secondo cui non e' possibile il giudice sia arbitro esclusivo della sua stessa incompatibilita'. A prescindere dal fatto che questo e' proprio quello che accade nel processo civile, secondo la lettera della legge e il pronunciamento armai consolidato delle due sentenze sopra richiamate, quella del 1981 e quella del 1998, non essendovene altre successive, a prescindere, ancora, dal fatto che la sentenza del 1981, come sopra visto, configura come atto «del tutto abnorme» l'autorizzazione data dal capo dell'ufficio al giudice civile che versa in ipotesi di astensione obbligatoria, va osservato che una frase del genere e' una petizione di principio, che fa il paio con quella, perfettamente speculare, che il capo dell'ufficio decida lui, inappellabilmente, quando il giudice e' compatibile col fascicolo e quando non lo e'. Bisognera' piuttosto vedere le conseguenze di queste due opzioni e, come detto al punto precedente, appaiono molto piu' gravi le conseguenze di uno stallo derivante dalla prevalenza della decisione del capo dell'Ufficio. Senza contare che il capo dell'ufficio, come pure detto, non e' un inerte recettore della dichiarazione, ma puo' interloquire col giudice e, se del caso, segnalare disciplinarmente la situazione. Ne' occorre spiegare ulteriormente come sia piu' proprio al suo ruolo tale procedere, piuttosto che supporre il contrario, cioe' il far prevalere la sua volonta' costringendo, se del caso, il giudice a segnalare disciplinarmente la situazione. Ancora, si fa un improprio riferimento all'eventualita' (niente affatto teorica) di una contestazione ad opera del nuovo assegnatario del giudizio. Anche qui si rischia di giocare con le parole. Colui che subentra secondo criteri predeterminati e legittimi non si vede quale contestazione possa legittimamente fare, se non contro il Fato, e sempre nell'ottica, piuttosto gretta, del «particulare» del Giudice, che bada a non avere fascicoli di troppo sul suo tavolo. Ma si spera che l'etica del lavoro del Giudice italiano sia, nella media, un po' migliore di quella che traspare da cio'. § 6 - I profili di illegittimita' costituzionale del sistema: disparita' tra processo civile e processo penale. Come sopra osservato, la comparazione con quanto accade nel processo civile puo' essere un utile punto di riferimento. Come e' noto, e come risulta dalle numerose pronunce della stessa corte costituzionale, il problema si e' posto sopratutto nel caso di incompatibilita' derivante da attivita' compiuta dal giudice in altra fase processuale. In questo contesto, e' noto l'orientamento restrittivo delle corti apicali. Tuttavia proprio sul versante del collegato profilo dell'astensione obbligatoria, si vede come nessun potere spetti al capo dell'ufficio e la situazione di astensione obbligatoria produca i suoi effetti a fronte della semplice dichiarazione del magistrato interessato. E, per converso, sono altrettanto noti gli interventi della Corte costituzionale circa le ipotesi di incompatibilita' del giudice penale derivanti dall'avere in qualche modo preso cognizione in altra fase processuale. Si assiste, in tal modo, ad un massimo di tutela, nel processo penale proprio rispetto a quelle condizioni di incompatibilita', che si sogliono definire «fisiologiche» rispetto a quelle che, sul versante dell'astensione, si sogliono definire «patologiche». Nella misura in cui il concetto di patologia avviene ricollegato piu' strettamente alla persona fisica del magistrato, appare evidente che la fattispecie che discende dall'ipotesi dell'art. 37 cosi come modificato dalla sentenza della Corte costituzionale numero 283 del 2000 appaia in qualche modo partecipe dell'una e dell'altra natura, e piuttosto si presenti come fisiologico, nella misura in cui non riguarda affatto la persona fisica del magistrato ma semplicemente una funzione legittimamente svolta in altro processo (anche civile). Appare allora agevole osservare come sia vieppiu' rafforzata l'affermazione secondo la quale il giudice dichiarante, piuttosto che decidere una «sua incompatibilita'», prende posizione sulla incompatibilita' obiettiva di due situazioni processuali. E che, dunque, «duttile» o «non duttile» che sia lo strumento che in tal modo appronta l'art. 37 modificato esso abbia in ogni caso una valenza secondo parametri obiettivi. Di qui, se da un lato appare improprio qualsiasi riferimento ad una «patologia», propria di un momento successivo, rapportata ad una «fisiologia» proprio in un momento precedente, per il tipo di astensione di cui ci stiamo occupando, ne esce rafforzata l'assonanza coll'incompatibilita', dalla quale la fattispecie astratta cosi' creata sembra differire, a causa della preoccupazione, propria della Corte nel momento in cui emise la sentenza additiva, di far verificare al Giudice caso per caso, secondo gli apporti giurisprudenziali, la «medesimezza» del fatto pregiudicante. Pertanto deve ritenersi che una diversa disciplina rispetto al processo civile non solo, in prima battuta, violi chiaramente il principio di uguaglianza, non avendo alcun motivo il giudice civile di operare diversamente in questi casi rispetto al giudice penale, ma viene anche violato un principio di ragionevolezza, nella misura in cui una situazione di tal genere non viene in rilievo nel processo penale, il quale pure e' improntato a quella che suole definirsi «verginita' cognitiva», su cui tra l'altro poggia gia' tutta la normativa sull'incompatibilita'. Quanto al tipo di pronuncia in grado di rimuovere i problemi di legittimita' costituzionale, non si ritiene che comporti una tecnica manipolativa particolare, potendosi ben limitare all'aggiunta dell'inciso al terzo comma dell'art. 36 c.p.p., che in tal modo verrebbe ad assumere la seguente forma. 2. La dichiarazione di astensione, limitatamente all'ipotesi di cui alla precedente lettera h), e' presentata al presidente della corte o del tribunale che decide con decreto senza formalita' di procedura.