TRIBUNALE DI FERMO 
 
    Il Giudice, letti gli atti del procedimento n. 2250/2013 rg.  Mod
16 a carico di C. G. ha emesso la seguente ordinanza. 
    Con provvedimento reso all'udienza del 29 settembre  2016  questo
Giudice segnalava al Presidente del Tribunale una propria sentenza ex
art. 425 c.p.p., in quanto la  stessa,  emessa  successivamente  alla
presa in carico del presente procedimento dibattimentale, configurava
un sopravvenuto motivo di astensione, ritenendo cosi' sussistente  la
fattispecie di astensione obbligatoria ex art. 37 codice di procedura
penale cosi' come modificato dalla Corte costituzionale (sentenza  n.
283.2000). 
    Le  sentenza  predetta,  pur  assolvendo  il  C  per  la  carenza
dell'elemento soggettivo a suo  carico,  riteneva  pero'  provata  la
commissione del reato sotto l'aspetto oggettivo. 
    L'imputazione definita con sentenza ai sensi dell'art. 425  c.p.p
riguardava una falsa testimonianza in un processo civile: si accusava
il C di aver deposto in data 14 giugno 2013  come  testimone  in  una
causa civile in opposizione all'esecuzione avverso atto di  precetto,
affermando il falso, e cioe', con riferimento alla consegna, da parte
sua, di un assegno bancario, per avere  affermato  di  non  aver  mai
consegnato a due avvocati, che invece avevano azionato in executivis,
l'assegno in questione. 
    L'imputazione relativa al presente procedimento  riguarda  invece
una falsa denuncia di smarrimento del medesimo  assegno,  in  realta'
consegnato, al contrario,  allo  stesso  legale,  cosi'  incolpandolo
indirettamente di ricettazione. 
    Non si tratta, invero,  degli  stessi  fatti,  ma  di  due  fatti
strettamente collegati: la mancata consegna,  cosi'  come  dichiarata
dal C nel processo civile nel 2013, non puo' che  essere  ricollegata
alla falsa denuncia di smarrimento del 2009, oggetto dell'imputazione
di calunnia per cui e' processo. Ragionevolmente, se il C non  voleva
ammettere di aver commesso un reato, dichiarando  lo  smarrimento,  e
comunque di aver dichiarato il falso con tale  denuncia,  non  poteva
che ribadire il (falso) fatto dello smarrimento nel processo  civile.
Di qui il pregiudizio in capo a  questo  giudice,  vale  a  dire  che
quanto aveva affermato, in qualita' di GUP, nella  sentenza  ex  art.
425 codice di procedura penale era ne' piu' ne'  meno  che  l'odierno
imputato aveva dichiarato il falso innanzi al giudice civile, dicendo
di non aver consegnato alcun assegno al suo creditore, ma  di  averlo
smarrito.  E  in  questa  sede  si  discute   proprio   della   falsa
dichiarazione di smarrimento, sotto il profilo della calunnia. 
    Di qui  la  segnalazione,  da  parte  di  questo  Giudice,  della
fattispecie di astensione obbligatoria ex art. 37 c.p.p., cosi'  come
modificata dalla Corte  costituzionale  (sentenza  n.  283.2000),  al
Presidente del Tribunale il quale, peraltro «rigettava» la richiesta,
con nota del 30 settembre 2016. 
    A questo punto, il giudicante interloquiva ulteriormente e, preso
atto del provvedimento del Presidente del Tribunale, inviava nota con
la quale dichiarava di non poter condividere  «...l'orientamento  sul
dovere obbligatorio di astensione segnalato per  il  procedimento  in
oggetto, espresso dalla SV in forma negativa nel provvedimento n.  30
settembre 2016 ...». 
    Nella stessa nota, in via  interlocutoria,  si  prospettavano  in
maniera articolata le ragioni per cui non veniva ritenuta sindacabile
la dichiarazione del Giudice di ipotesi  di  astensione  obbligatoria
sia  pure  nella  consapevolezza  delle  difficolta'  oggettive   che
comportava  tale  interpretazione  che,  peraltro,  questo  decidente
riteneva priva di alternative.  E,  laddove  la  posizione  del  capo
dell'Ufficio fosse rimasta immutata, si chiedeva di inoltrare al  CSM
un quesito sul tema «...Sempre che permanga  l'orientamento  espresso
dalla SV, la quale non intenda  rivederlo  neanche  alla  luce  delle
considerazioni proposte ....». 
    Il  coinvolgimento  del  Csm  presupponeva,  ovviamente,  che  il
predetto  organo  di  rilievo  costituzionale  avesse  competenza   a
pronunciarsi,  sotto  il  profilo  attinente  l'organizzazione  degli
uffici giudiziari. Competenza non del tutto pacifica, ma che comunque
era stata accettata da questo decidente, anche perche' gia' il CSM si
era espresso in passato su fattispecie analoghe. 
    Sussistevano, infatti, da parte del CSM, due precedenti  risposte
a quesiti, invero non del tutto in termini in  quanto,  da  un  lato,
riguardanti una componente strettamente  «personale»  del  dovere  di
astensione, e relativa alla persona del magistrato che  segnalava  il
proprio dovere di astensione obbligatoria, dall'altro riguardanti  il
processo civile. 
    Nella «Risposta a  quesito  del  16  aprile  2009,  Il  Consiglio
superiore della  magistratura,  nella  seduta  del  16  aprile  2009,
adottava la seguente delibera: «Il 20 agosto 2008 la dott.ssa Giudice
della sezione lavoro della Corte d'appello  di  ...  ha  proposto  un
quesito  al  Consiglio  superiore  della  magistratura  relativo   al
rapporto tra il Giudice e il capo dell'ufficio nell'ipotesi in cui il
primo, rispetto a una determinata controversia, dichiari  di  versare
in una situazione di astensione obbligatoria ai sensi del  codice  di
procedura civile. Era accaduto nel caso di specie che la dott.ssa ...
si era trovata a dover giudicare in una causa in  cui  parte  era  un
istituto di credito con il quale  aveva  stipulato  un  contratto  di
mutuo,  e  aveva  ritenuto  percio'  di  doversi  astenere  ai  sensi
dell'ultima parte dell'art. 51, comma 1, n.  3  codice  di  procedura
civile che obbliga il Giudice ad astenersi, tra l'altro, quando abbia
«... rapporti di credito o di debito con una delle parti o alcuno dei
suoi difensori». 
    Il  Presidente  della   Corte   d'appello,   preso   atto   della
dichiarazione di astensione anzidetta, aveva emesso un  provvedimento
motivato rappresentando le ragioni per le quali, a suo giudizio,  nel
caso  concreto  non  sussistessero  gli  estremi   per   l'astensione
obbligatoria  prevista  dalla  norma  citata,  concludendo   con   un
dispositivo  che  dichiarava  «non  fondata»  la   dichiarazione   di
astensione presentata dalla dott.ssa ... 
    A seguito di tale provvedimento la dott.ssa  ...  ha  chiesto  al
C.S.M. di  sapere  «se  non  sussista  a  suo  carico  il  dovere  di
disattendere il provvedimento presidenziale ed in  caso  positivo  di
conoscerne le modalita' esecutive». 
    Si osserva al riguardo che l'art. 51 codice di  procedura  civile
prevede al primo comma i casi di astensione obbligatoria del Giudice,
e al secondo comma i casi di astensione facoltativa. 
    Soltanto per questi ultimi e' prevista una procedura  incidentale
che investe la competenza del capo dell'ufficio, al quale il  Giudice
infatti «puo' richiedere l'autorizzazione ad astenersi», mentre per i
casi di astensione obbligatoria essa ha effetto  in  base  alla  sola
dichiarazione del Giudice che ritenga di ravvisare una situazione che
l'imponga. In tal senso, oltre alla chiara lettera della norma, versa
anche la giurisprudenza di legittimita', che con sentenza  Cassazione
23 febbraio 1981, n.  1093  ha  precisato  che  «L'autorizzazione  ad
astenersi  viene  richiesta,  e  puo'  essere   concessa,   solamente
nell'ipotesi prevista dal secondo comma dell'art.  51  c.p.c,  mentre
nei casi elencati dal n. 1 al  numero  5  dello  stesso  articolo  il
Giudice,  obbligato  ad  astenersi,  ha,  tutt'al  piu',  l'onere  di
comunicare l'astensione al  capo  dell'ufficio,  il  quale  non  deve
autorizzarla  ma  limitarsi  a  prender  atto  dell'astensione  e   a
provvedere alla sostituzione del Giudice astenutosi». 
    Tale principio risulta ripetuto anche in tempi  successivi  nella
giurisprudenza di legittimita' nelle rare  occasioni  in  cui  si  e'
dovuta occupare della questione (v. Cassazione 20 febbraio  1998,  n.
12842), e risulta certo conforme a diritto.  Ne  discende,  pertanto,
che e' responsabilita' esclusiva del Giudice quella  di  valutare  la
sussistenza delle ragioni di  astensione  obbligatoria  previste  dal
primo comma dell'art. 51 codice di procedura penale (fra le quali  vi
e' quella dichiarata nel caso di  specie  dalla  dott.ssa  ...),  non
potendo  il  capo   dell'ufficio   disattenderne   al   riguardo   le
determinazioni ma dovendo esclusivamente prenderne atto e adottare  i
provvedimenti di conseguenza. E' altresi' evidente che le ragioni  di
sussistenza di tale tipo di astensione sono rigorosamente ancorate al
modello astratto previsto dalla  legge,  e  pertanto  sul  magistrato
chiamato alle necessarie valutazioni e determinazioni  incombe  anche
ogni responsabilita' che possa  ravvisarsi  in  merito  ad  eventuali
abusi che possa compiere nel far cio'. 
    Osservava ancora questo Giudice nella sua nota al Presidente come
la risposta  data  in  questo  caso  fosse  «sicuramente  piu'  netta
rispetto all'altro precedente risalente, peraltro assai  simile,  che
differisce, sembra, solo su un punto fondamentale e cioe' sulla  mera
presa d'atto da parte del capo dell'Ufficio,  affermata  nel  2009  e
negata nel 2006»: 
    Quesito posto con nota in data 9 marzo 2005  dalla  dott.ssa  ...
consigliere della sezione lavoro della Corte di  appello  di  rimesso
con nota in data 12 marzo 2005 dal  Presidente  della  stessa  Corte,
volto a conoscere gli ambiti del potere di sindacabilita',  da  parte
del Capo dell'Ufficio, della dichiarazione  di  astensione  formulata
nel corso di una causa di lavoro. 
    (Risposta a quesito del 31 maggio 2006) 
    Il Csm, nella seduta del 31 maggio 2006,  approvava  la  seguente
delibera: «Il quesito e'  formulato  a  seguito  della  reiezione  di
un'istanza di astensione della richiedente  presentata  in  corso  di
causa in ragione della circostanza che la stessa era debitrice di  un
istituto di credito, parte in causa, per aver stipulato con lo stesso
un contratto di mutuo garantito da ipoteca immobiliare. Il Presidente
della Corte ha ritenuto che la causa di  astensione  obbligatoria  di
cui all'art. 51, comma 1, n. 3, codice di procedura civile (esistenza
di rapporto di credito o debito tra il Giudice ed una delle parti) in
questo caso non sussista, in quanto non ha  ravvisato  una  rilevanza
tale della posizione debitoria da rendere possibile  in  astratto  la
non parzialita' o la mancanza di serenita' del Giudice. Pertanto,  ha
rigettato l'istanza dichiarandola «non  fondata»,  sulla  base  della
valutazione che «si  tratta  di  rapporto  con  un  ente  impersonale
garantito da un contratto di mutuo e l'entita' del debito di per  se'
non rilevante per la banca non lo e' nemmeno per Giudice ...». 
    La ricorrente, ritenendo che nella  fattispecie  l'esistenza  del
contratto di mutuo abbia determinato una ragione di debito verso  una
delle parti di  causa  che  rende  obbligatoria  l'astensione  e  che
avrebbe dovuto rendere superflua ogni valutazione di opportunita'  da
parte del Presidente della  Corte,  ha  avanzato  il  dubbio  che  il
Presidente stesso nell'adottare il provvedimento abbia esorbitato dai
suoi poteri e chiede se la dichiarazione di astensione  possa  essere
oggetto di sindacato da parte del dirigente dell'ufficio  chiamato  a
pronunziarsi su di essa e quale debba essere l'atteggiamento  che  il
magistrato deve tenere in presenza  della  valutazione  dallo  stesso
effettuata. 
    Gli  istituti  dell'astensione  e  della  ricusazione  riguardano
entrambi il presupposto processuale  dell'imparzialita'  e  terzieta'
del   Giudice   e   si   ricollegano   ai   principi   costituzionali
dell'obbedienza del Giudice solo alla legge (art. 101) e del  diritto
delle parti processuali a che il giudizio sia tenuto  da  un  Giudice
terzo, nell'ambito di un giusto processo (art. 111). 
    L'art. 51 del codice di procedura civile prevede  le  ipotesi  in
cui il magistrato e' tenuto ad astenersi (c. 1) e quelle  in  cui  lo
stesso magistrato puo' chiedere di essere  autorizzato  ad  astenersi
(c. 2). Nel primo caso i motivi  di  astensione  sono  tassativamente
indicati (c. 1, n. 1-5, astensione obbligatoria) e  possono  condurre
anche alla ricusazione ad iniziativa di una delle parti  processuali,
nel secondo  caso  l'astensione  trova  origine  in  motivi  di  mera
convenienza che non possono essere oggetto di ricusazione (astensione
facoltativa). L'art. 78 disp. att. del  codice  di  procedura  civile
prevede che «il Giudice istruttore, che riconosce l'esistenza  di  un
motivo di astensione a norma dell'art.  51  del  codice,  deve  farne
espressa dichiarazione  oppure  istanza  scritta  al  Presidente  del
Tribunale appena ricevuto il decreto di  nomina».  Tale  disposizione
distingue  tra  la  dichiarazione  del  motivo  di  astensione  e  la
presentazione dell'istanza di astensione, nella  sostanza  rimarcando
la tradizionale distinzione tra la astensione obbligatoria che  opera
automaticamente e la astensione facoltativa, che  opera  solo  se  la
relativa istanza viene accolta. 
    Il punto interessato dal quesito  e'  quello  dell'individuazione
dei poteri  del  magistrato  che  dirige  l'ufficio  a  fronte  della
dichiarazione di esistenza del motivo di  astensione  obbligatoria  o
dell'istanza di astensione facoltativa, in quanto mentre e'  evidente
che in quest'ultimo caso deve compiere una valutazione del motivo  di
opportunita' dedotto, non e' chiaro se  nel  primo  caso  egli  debba
limitarsi  a  prendere  atto  della  dichiarazione  del   motivo   di
astensione o non possa in qualche  modo  sindacare  la  dichiarazione
fatta dal Giudice. 
    La Commissione richiama il parere dell'Ufficio  studi  n.  108/06
del 10 aprile 2006 (all. a),  che  riporta  la  giurisprudenza  della
Corte di legittimita' e  pone  in  rilievo  che  l'autorizzazione  ad
astenersi e' richiesta solo per  le  ipotesi  di  astensione  di  cui
all'art. 51, comma 2, codice di procedura civile  (gravi  ragioni  di
convenienza), e non per le ipotesi di astensione obbligatoria, rileva
che il provvedimento del capo dell'ufficio (di rigetto o accoglimento
dell'istanza di  astensione)  e',  comunque,  atto  autorizzativo  di
carattere ordinatorio con evidenti ricadute giurisdizionali,  essendo
destinato ad incidere sull'individuazione stessa del Giudice. 
    Sulla base di questi elementi deve,  innanzitutto,  rilevarsi  la
competenza del Consiglio superiore della magistratura a rispondere al
quesito, investendo esso materia attinente  all'organizzazione  della
giurisdizione, sottratta alla disponibilita' delle  parti  e  rimessa
solo all'iniziativa del Giudice. 
    Deve  essere,  inoltre,  posto  in   risalto   che,   sul   piano
deontologico «a fronte  del  fondamentale  rilievo  che  nel  sistema
costituzionale assumono i beni  protetti  dal  dovere  di  astensione
(imparzialita' e terzieta' del Giudice) ... di grandissima intensita'
deve  essere  l'impegno  del  magistrato  nell'individuazione   delle
situazioni  di  pericolo  e   nel   perseguimento,   con   tutta   lo
determinazione  necessaria,  delle  possibilita'  che   l'ordinamento
appresta per evitare il grave pregiudizio che la  mancata  astensione
reca alla credibilita' della giurisdizione e del magistrato  stesso».
Pertanto, «se e' vero che la legge non offre rimedi al magistrato che
abbia  presentato   istanza   di   astensione   nei   confronti   del
provvedimento che non lo accolga, resta pur fermo che e'  dovere  del
magistrato  presentare  l'istanza  ed  eventualmente   reiterarla   o
comunque  assumere  anche  le   opportune   iniziative,   all'interno
dell'amministrazione della giurisdizione ... per evitare  la  lesione
dei principi del giusto processo» (Cass. Sez. un., 22  novembre  2004
n. 21947). 
    Tanto   premesso,   rispondendo   al   quesito   del   magistrato
richiedente, puo' affermarsi che il capo dell'ufficio investito della
dichiarazione del motivo di astensione  non  puo'  limitarsi  ad  una
passiva ricezione ed alla  presa  d'atto  di  quanto  dichiarato  dal
Giudice. Il principio della terzieta' ed imparzialita' deve  trovare,
infatti, un necessario contemperamento con il principio  del  Giudice
naturale, anch'esso di livello costituzionale  (art.  25  Cost.),  di
modo che il dirigente dell'ufficio investito della dichiarazione  del
motivo di astensione deve valutare la sussistenza  delle  circostanze
dedotte a sostegno  della  dichiarazione  stessa.  Solo  la  puntuale
corrispondenza della fattispecie denunziata con quelle  previste  dai
numeri 1-5 dell'art. 51, comma 1,  del  codice  di  procedura  civile
legittima la sostituzione  del  magistrato  e,  quindi,  la  coerente
conciliazione del principio di terzieta' e imparzialita'  con  quello
di salvaguardia del Giudice naturale. 
    In conclusione, il capo dell'ufficio di fronte alla dichiarazione
di astensione del magistrato giudicante  di  una  causa  civile,  con
provvedimento adeguatamente motivato, deve: 
      a)  nel  caso  di  astensione   obbligatoria,   verificare   la
corrispondenza  della  fattispecie   denunziata   quale   motivo   di
astensione a una di quelle fissate dall'art. 51, comma 1, numeri 1-5,
c.p.c.; 
      b) nel caso di astensione facoltativa, valutare  la  situazione
di fatto rappresentata dal richiedente e le ragioni di convenienza ai
fini   dell'accertamento    della    possibilita'    di    violazione
dell'imparzialita'  e   terzieta'   della   giurisdizione   affermate
dall'art. 111 Cost. 
    Inoltre, le valutazioni del capo dell'ufficio saranno dirette  ad
evitare,   nell'interesse   del    buon    andamento    dell'ufficio,
ingiustificate sottrazioni da parte  dei  giudici  dalle  cause  loro
assegnate con danno conseguente per  l'organizzazione  del  lavoro  e
violazione del principio del Giudice naturale». 
    Veniva poi accluso, nella risposta al quesito, un allegato parere
n. 108/2006 dell'ufficio studi e documentazione. 
    «La sesta Commissione ha chiesto a questo ufficio  una  relazione
circa la natura processuale o meno  dell'istanza  di  astensione  del
magistrato giudicante in  controversie  civili,  con  riferimento  al
quesito posto dalla dott.ssa ...  consigliere  della  sezione  lavoro
della Corte d'appello di trasmesso con nota del  12  marzo  2005  dal
Presidente della stessa Corte,  volto  a  conoscere  gli  ambiti  del
potere  di  sindacabilita',   da   parte   del   capo   dell'Ufficio,
dell'istanza stessa. 
    II. Osservazioni dell'Ufficio studi. 
    Gli articoli  51  e  seguenti  del  codice  di  procedura  civile
regolano l'istituto denominato astensione e ricusazione  del  Giudice
che tende a garantire, attraverso il  presupposto  processuale  della
capacita'  soggettiva  del   Giudice,   l'imparzialita'   dell'organo
giudicante e, quindi, ad  impedire  che  influssi  personali  possano
deformare la giustizia della decisione. 
    In dottrina e' stata affrontata  la  questione  dell'appartenenza
del  procedimento  di  ricusazione  all'attivita'  giurisdizionale  o
all'attivita'   amministrativa    degli    organi    giurisdizionali.
L'inquadramento dell'istituto  va  effettuato  tenuto  conto  che  la
finalita' del  procedimento  e'  quella  di  accertare  la  capacita'
soggettiva del Giudice. Il  procedimento  di  ricusazione  appartiene
dunque a quei procedimenti diretti  all'attuazione  non  d'una  norma
sostanziale, ma d'una norma processuale;  e  percio'  giurisdizionale
puo' dirsi perche' coordinato ad un fine giurisdizionale. 
    Tale procedimento e' stato qualificato giurisdizionale oltre  che
perche' coordinato  ad  un  fine  giurisdizionale,  anche  in  quanto
trattasi  di  un  vero  e  proprio  processo   avente   per   oggetto
l'attuazione della legge a mezzo d'una azione in ricusazione. 
    1. La  natura  giurisdizionale  del  procedimento  in  parola  e'
affermata,  sia  pure  molto  concisamente,   dalla   dottrina   piu'
autorevole ... omiss Contro questa autorevole dottrina  stanno  pero'
altre opinioni, che vedono nella ricusazione soltanto un procedimento
che ha un carattere d'ordine e di regolamento interno nel  senso  che
"il suo oggetto e' la costituzione del Giudice" ... omissis ... 
    L'astensione, secondo le definizioni tradizionali invece non  da'
luogo a procedimento contenzioso, ma si svolge come  un  procedimento
amministrativo interno, al quale le parti della causa principale sono
estranee. Vi sono due tipi di astensione: l'astensione del Giudice il
quale conosce l'esistenza d'uno dei motivi di  ricusazione  dell'art.
51 e l'astensione del  Giudice  per  un  motivo  di  convenienza  non
enumerato fra quelli suddetti. Il Giudice comunica la sua  astensione
al Presidente del tribunale non appena ricevuto il decreto di  nomina
o, se il motivo sorge ad istruzione iniziata,  al  capo  dell'ufficio
giudiziario competente (art. 78, D. Att.), il quale dovra'  esaminare
se e' fondata e deliberare immediatamente su questa (art. 264, Regol.
gen. giudiziario); le parti sono estranee a questa deliberazione, che
non  possono  in  alcun  modo  impugnare,  pur  potendo  proporre  la
ricusazione  qualora  l'astensione  venga   riconosciuta   priva   di
fondamento. Invece, nel caso in cui il motivo di  astensione  sia  di
convenienza, il Giudice chiede di astenersi (art. 78, D. Att.). 
    L'astensione e la ricusazione riguardano entrambe il  presupposto
processuale   della   imparzialità-terzieta'   del   Giudice   e   si
riconnettono al principio di cui  all'art.  111  della  Costituzione:
sono, dunque, posti a tutela del diritto soggettivo delle parti ad un
giusto processo. L'astensione si pone come meccanismo  procedimentale
preventivo antecedente alla ricusazione. La tutela della terzieta' e'
infatti, in primo luogo,  garantita  dall'obbligo  di  astensione  e,
sotto tale profilo, la proposta o il suo procuratore sono  condannati
in una multa non superiore a lire 5000 ... omissis ... 
    Riguardo all'astensione essa, secondo la  dottrina  tradizionale,
non  darebbe  luogo  ad  un  procedimento  contenzioso,  ma   ad   un
procedimento amministrativo interno al quale  le  parti  della  causa
principale sarebbero estranee. 
    Il provvedimento del capo dell'ufficio che rigetta la domanda  di
astensione non e' suscettibile di impugnazione. In tale senso  si  e'
pronunciata la Cassazione con sentenza del 19 gennaio 1988 n. 35  che
ha  affermato  il  principio  secondo  il  quale  "E'  manifestamente
inammissibile,  in  riferimento  agli  articoli  3  e  111  Cost.  la
questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  51  c.pc.  nella
parte in cui non prevede alcun rimedio contro la decisione  del  Capo
dell'Ufficio in tema  di  astensione,  ne'  determina  la  forma  del
provvedimento". 
    Secondo tale pronuncia il  provvedimento  del  capo  dell'ufficio
rivestirebbe un carattere meramente ordinatorio in quanto espressione
della facolta' di distribuzione del lavoro e, piu' in generale, della
potesta'  direttiva.  Il  provvedimento  non  avrebbe  dunque  natura
giurisdizionale   e   da   tale   dato    deriverebbe    l'esclusione
dell'ammissibilita' del giudizio di legittimita' costituzionale. 
    L'autorizzazione ad  astenersi  viene  richiesta  e  puo'  essere
concessa solamente nelle ipotesi previste dal II comma  dell'art.  51
c.p.c., mentre nei casi elencati nel I comma dal n. 1 al n.  5  dello
stesso articolo il Giudice obbligato ad astenersi ha,  tutt'al  piu',
l'onere di comunicare l'astensione al capo dell'ufficio, il quale non
deve autorizzarla, ma limitarsi a prendere atto dell'astensione ed  a
provvedere  alla  sostituzione  del  Giudice  astenutosi  (Cass.   23
febbraio 1981, n. 1093). 
    Il carattere ordinatorio del provvedimento di  rigetto  e'  stato
affermato dalla Corte costituzionale con l'ordinanza del  19  gennaio
1988 n. 35. 
    Tale provvedimento si differenzia  da  quello  di  rigetto  della
ricusazione, trattandosi quest'ultimo di provvedimento  che  ha  come
presupposto l'azione delle parti processuali, e' emesso all'esito  di
un procedimento incidentale ed assume la forma di ordinanza,  di  cui
e' esclusa per legge l'impugnabilita'. Esclusione  di  impugnabilita'
che come esposto e' stata ritenuta conforme a Costituzione anche dopo
gli interventi sull'art. 111 della Costituzione. 
    Il provvedimento del capo dell'ufficio ha carattere ordinatorio e
natura di atto autorizzativo, ma pure connotato  giurisdizionale  per
il fatto che esso incide sull'organizzazione del processo». 
    Il parere allegato continuava con il richiamo alla sentenza della
Cassazione sez. Unite  del  19  settembre  2003,  di  conferma  delle
decisioni emesse in sede disciplinare:  «a  fronte  del  fondamentale
rilievo che nel sistema costituzionale assumono i beni  protetti  dal
dovere di astensione (l'imparzialita' e la terzieta'  del  Giudice)»,
deve ritenersi che «corrispondentemente,  di  grandissima  intensita'
deve  essere  l'impegno  del  magistrato  nell'individuazione   delle
situazioni di pericolo e, con  tutta  la  determinazione  necessaria,
delle possibilita' che l'ordinamento appresta per  evitare  il  grave
pregiudizio che la mancata astensione reca  alla  credibilita'  della
giurisdizione e del magistrato stesso», cosi' che, «se e' vero che la
legge non offre rimedi al magistrato che abbia presentato istanza  di
astensione nei confronti del provvedimento che non la accolga,  resta
pur fermo che  e'  dovere  del  magistrato  presentare  l'istanza  ed
eventualmente reiterarla  o  comunque  assumere  anche  le  opportune
iniziative,  all'interno  del  sistema   dell'amministrazione   della
giurisdizione (come ad esempio la segnalazione agli organi  ai  quali
spetta la vigilanza), per evitare la lesione dei principi del  giusto
processo». 
    Nella predetta nota  interlocutoria  questo  decidente  osservava
come le richiamate delibere avevano oggetto in parte diverso dal caso
in esame, il che giustificava la proposizione  del  quesito,  sebbene
dovesse ritenersi uguale la conclusione. 
    Osservava infatti che: 
      1) com'e' noto,  la  Corte  costituzionale,  nell'integrare  il
testo dell'art. 37, da un lato ha posto  la  fattispecie  nell'ambito
dell'astensione obbligatoria e non dell'incompatibilita',  dall'altro
ha  (testualmente)  rilevato  che  «...  alla  stregua  dei  rapporti
sistematici tra incompatibilita' e cause  di  astensione-ricusazione,
queste  ultime,  ove  si  sostanzino  nella  manifestazione   di   un
convincimento   espresso   in   un   diverso    procedimento,    sono
caratterizzate  dalla  loro  non  idoneita'  ad  essere   tipicizzate
preventivamente dal legislatore, in  quanto  la  loro  stessa  natura
impone  che  sia  il  Giudice,  nell'ambito  della  cornice  generale
delineata dalla legge, ad accertare  in  concreto  e  caso  per  caso
l'effetto   pregiudicante   per   l'imparzialita'.    Sara'    dunque
l'elaborazione giurisprudenziale, cosi' come e' avvenuto per le cause
di astensione e di ricusazione gia' previste nel codice, a definire i
vari casi di applicazione di questa causa di ricusazione...»; 
      2) tale rinvio all'elaborazione giurisprudenziale di certo  non
facilitava il compito del singolo Giudice.  Rilevante  era,  infatti,
l'opzione specifica della Corte Cost. di inquadrare  la  problematica
nell'istituto dell'astensione/ricusazione piuttosto  che  in  quello,
peraltro contiguo, dell'incompatibilita'; 
      3) andava tuttavia affermato che la fattispecie  in  esame  non
appartenesse ai casi «grigi» che  pure  potrebbero  rinvenirsi  nella
pratica. In tanto, infatti, la scriminante di cui all'art. 384  c.p.,
riconosciuta da questo decidente quale Gup era applicabile, in quanto
la condotta del C ,  qui  imputato  di  calunnia,  si  assumeva  come
effettivamente sussistente proprio nella sentenza «pregiudicante». Ed
infatti si diceva chiaramente nella sentenza  del  GUP  ex  art.  425
codice di procedura penale (imputazione di falsa testimonianza)  :  «
... In realta' e' risultato che, seguito di plurimi inviti, il C.  G.
si recava presso lo studio dell'Avv. D. B., proponendo una  dilazione
del  pagamento,  e  asserendo  di  essere   stato   costretto   dalle
difficolta' economiche a denunciare l'assegno come  smarrito.  Veniva
redatta pertanto una scrittura privata a  mezzo  della  quale  il  C.
definiva la propria esposizione debitoria a  mezzo  di  un  pagamento
dilazionato». Per lo stesso assegno, come peraltro  richiamato  nella
prefata sentenza n. 123 del 2016,  si  era  aperto  procedimento  che
questo   Giudice   aveva   poi   dismesso,   ritenuta   la    propria
incompatibilita',  avvenuta  medio  tempore  con   un   provvedimento
specifico (prima  non  divenendo  concreto  il  pericolo  secondo  il
paradigma delineato dalla Corte costituzionale : «... va rilevato che
non e'  sufficiente,  ai  fini  della  individuazione  dell'attivita'
pregiudicante,  che  il  Giudice  abbia  in  precedenza  avuto   mera
cognizione dei fatti di causa, raccolto prove, ovvero si sia espresso
solo incidentalmente e occasionalmente su particolari  aspetti  della
vicenda processuale sottoposta al suo giudizio ...»,  occorrendo  una
sentenza o anche un decreto o un'ordinanza che abbia  deciso  qualche
questione attinente). 
    Pertanto il Giudice, alla fine della nota interlocutoria: 
      1)   reiterava   la   propria   dichiarazione   di   astensione
obbligatoria; 
      2) richiedeva al Presidente del Tribunale di trasmettere al CSM
il seguente quesito, subordinatamente al  permanere  del  suo  avviso
contrario «... se, in ordine al rapporto tra il  Giudice  e  il  capo
dell'ufficio nell'ipotesi in cui il primo, rispetto a una determinato
processo penale, dichiari di versare in una situazione di  astensione
obbligatoria  ai  sensi  dell'art.  37  c.p.p.,  e  laddove  il  capo
dell'ufficio  non  aderisca  alla  valutazione  fornita  dal  Giudice
dichiarante: 
        a) il predetto  Giudice  abbia  il  dovere  di  reiterare  la
propria dichiarazione, come sembra necessario; 
        b) il Capo dell'ufficio debba limitarsi ad una  presa  d'atto
della dichiarazione ovvero possa valutarla; 
        c) nel caso che possa valutarla, come suggerisce la  risposta
al quesito da parte del CSM del  31  maggio  2006  (limitatamente  al
processo  civile),  quali  siano  gli  effetti   concreti   di   tale
valutazione e in particolare, seppure argomentata da parte  del  Capo
dell'ufficio α)  sia  mera  espressione  di  un  principio  di  leale
collaborazione tra Giudice e Capo dell'ufficio,  prevalendo  in  ogni
caso la dichiarazione d'astensione del Giudice  che  ritiene  di  non
aderire neppure all'argomentazione del Capo  dell'ufficio  ovvero  β)
vincoli, e se si' in che modo, il Giudice dichiarante». 
    Seguiva poi una nota del Presidente del Tribunale che riteneva di
investire, non si riesce ad apprezzare a che titolo, se non  ai  fini
disciplinari (peraltro  in  alcun  modo  coltivati  successivamente),
rispetto ai quali nulla riteneva di specificare,  della  notizia  del
contrasto il Presidente di Corte d'Appello. Contestualmente  intimava
il decidente a prendere di nuovo in carico il  processo  e  definirlo
prontamente. 
    Rilevava  inoltre  che  con  la  nota  di  questo  giudicante  si
richiamavano esclusivamente  varie  argomentazioni  tutte  incentrate
sulla interpretazione della disposizione di' cui all'art.  51  c.p.c.
che, ovviamente, disciplina i casi e le modalita' dell'astensione del
giudice nei procedimenti civili,  regolati  dal  suddetto  codice  di
rito, e non anche quelli disciplinati dal codice di procedura penale,
nella concreta  fattispecie  applicabile;  che,  infatti,  l'art.  36
codice di procedura penale disciplina l'astensione  del  giudice  nei
procedimenti penali in modo del tutto diverso, atteso che da un  lato
prevede  l'obbligatorieta'  dell'astensione  in  tutti  i  casi   ivi
previsti, ivi  compreso  quello  della  dedotta  esistenza  di  gravi
ragioni di convenienza, e,  dall'altro,  al  comma  3,  espressamente
prevede che in tutti tali casi  la  dichiarazione  di  astensione  e'
presentata al Presidente della corte o del tribunale che  decide  con
decreto senza formalita'  di  procedura;  richiamava  il  fatto  che,
secondo  la  giurisprudenza   della   Suprema   Corte,   il   decreto
presidenziale che decide  senza  formalita'  sulla  dichiarazione  di
astensione e'  sottratto  ad  ogni  forma  di  gravame,  sia  per  il
principio di tassativita' delle impugnazioni, sia perche'  si  tratta
di provvedimento meramente ordinatorio, di  natura  amministrativa  e
non giurisdizionale, i cui  effetti  rimangono  limitati  nell'ambito
dell'ufficio, non potendosi ritenere che tale regime sia  lesivo  dei
principi  costituzionali  di  uguaglianza,  tutela  della  difesa  ed
imparzialita' del giudice poiche' la parte interessata puo'  proporre
tempestivamente dichiarazione di ricusazione, la decisione in  ordine
alla  quale  e'  emessa  all'esito  di  una  procedura   svolta   nel
contraddittorio ed e' ricorribile per cassazione ex art. 127  c.p.p.;
nel merito della fattispecie obbligatoria di astensione confermava il
decreto da lui emesso in osservanza del suddetto art.  36  codice  di
procedura penale in data 30 settembre  2016  sulla  dichiarazione  di
astensione trasmessagli in data 27 settembre  2016  dallo  scrivente,
«...  peraltro  sull'erroneo  presupposto  dell'aver  giudicato   sul
medesimo reato per il quale doveva procedere, trattandosi  nel  primo
procedimento del reato di falsa testimonianza e nel secondo  (per  il
quale e'  stata  resa  dichiarazione  di  astensione)  del  reato  di
calunnia ...». 
    Riteneva anche che ... «il chiaro ed inequivoco dettato normativo
non consente dubbi od incertezze interpretative e che pertanto appare
del   tutto   ultronea,   oltre   che   sicuramente   irrituale,   la
«sollecitazione» al sottoscritto di trasmettere  al  CSM  il  quesito
formulato dall'estensore della nota che, ove lo  ritenga  necessario,
potra' direttamente interessare  il  suddetto  CSM  ovvero  segnalare
nelle competenti sedi la condotta del sottoscritto, ove  ritenuta  in
qualche modo illegittima, come parrebbe dedursi  da  taluni  passaggi
della suddetta nota». 
    Contestualmente disponeva,  poi  «...  la  trasmissione  al  Sig.
Presidente della Corte di Appello delle Marche di copia del  presente
provvedimento e della nota del  Presidente  di  sezione  in  data  24
gennaio 2016  per  opportuna  conoscenza  e  per  le  valutazioni  di
competenza, atteso il potenziale conflitto evidenziato nella suddetta
nota che potrebbe coinvolgere i vertici di questo Tribunale». 
    Faceva nuovamente riscontro il Giudice dichiarando: 
      1)  la  formale  presa  in  carico,   a   seguito   dell'ultima
interlocuzione, del procedimento stesso, che  nell'immediato  sarebbe
consistita nel fissare udienza di prosecuzione del  processo  innanzi
allo scrivente; 
      2) che si era provveduto  a  far  separare,  in  ossequio  alle
regole enucleabili tra l'altro dalla delibera CSM del 5 ottobre  2016
in ordine al regime di pubblicita' dei provvedimenti  in  materia  di
astensione,  dal  fascicolo  attinente  al  procedimento  penale,  il
carteggio intercorso a far tempo dalla nota dello  scrivente  del  24
gennaio 2017, in apposito sotto-fascicolo da  conservarsi  presso  la
Segreteria: salvo diverso intendimento, sullo specifico punto,  dello
stesso Presidente del Tribunale a SV, al quale lo scrivente non aveva
difficolta' a riconoscere - sotto tale unico profilo - ogni decisione
definitiva, trattandosi di  competenze,  per  la  loro  natura,  piu'
specificamente appartenenti al Capo dell'Ufficio; 
      3) l'invio, ove possibile  in  giornata  stesso,  dello  stesso
quesito personalmente da parte di questo Giudice al CSM. 
    Cio' posto, faceva peraltro presente che la  questione,  sia  pur
rilevante, non uscisse dall'ambito di normale  confronto  all'interno
dell'ufficio giudiziario. 
    Ribadiva  la  circostanza  che  si  trattava  di  una  «richiesta
subordinata» (come  si  e'  visto  sopra,  si  «...  2)  Richiede  al
Presidente del Tribunale di trasmettere al CSM il  seguente  quesito,
subordinatamente al permanere del suo avviso contrario ...») e non di
una sollecitazione, termine che evocherebbe la richiesta stessa quale
conseguenza di chissa'  quale  omissione  o  inadempimento  da  parte
dell'organo sovraordinato (laddove e' proprio l'ambito di  incertezza
interpretativa che postulava la  necessita'  di  un  quesito)  ed  in
questo contesto la richiesta di trasmissione  tramite  il  Presidente
era da un lato una forma di cortesia, essendo senz'altro  censurabile
quantomeno a livello  di  correttezza  dei  rapporti  interpersonali,
inviare il quesito al CSM senza renderne edotto il Capo dell'Ufficio.
Ma soprattutto, la causa di tale  trasmissione  del  quesito  al  CSM
tramite il Presidente del tribunale era da rinvenire in  una  ragione
ben  piu'  sostanziale,  e  cioe'  quella  che  -  proprio   per   la
complessita' della materia - la questione  meritava  una  trattazione
articolata da parte dello  scrivente  e  tale  articolazione  avrebbe
consentito di apprezzare, se del caso  positivamente,  da  parte  del
Presidente le ragioni esposte. Anche  nell'implicito,  ma  tutt'altro
che nascosto, auspicio che cio' avvenisse, va rinvenuta la  causa  di
tale modalita' indiretta ed eventuale della trasmissione del quesito. 
    La  richiesta,  in  questo  senso,  era  anche  il  tentativo  di
risolvere un conflitto - non tra le persone ma tra  gli  orientamenti
difformi che si possono rinvenire  in  tale  materia  -  cercando  di
argomentare  le  ragioni  della  richiesta  e  di  convincere   sulla
validita' della stessa. 
    Il Csm rispondeva al quesito con nota del 22 febbraio  2018:  «il
dottor Cesare Marziali, Presidente di Sezione presso il Tribunale  di
Fermo, ha formulato il  seguente  quesito:  «...  se,  in  ordine  al
rapporto tra il giudice e il capo dell'ufficio nell'ipotesi in cui il
primo, rispetto  a  una  determinato  processo  penale,  dichiari  di
versare  in  una  situazione  di  astensione  obbligatoria  ai  sensi
dell'art. 37 c.p.p., e laddove il capo dell'ufficio non aderisca alla
valutazione fornita dal giudice dichiarante: 
      a) il predetto giudice abbia il dovere di reiterare la  propria
dichiarazione, come sembra necessario; 
      b) il Capo dell'ufficio debba limitarsi  ad  una  presa  d'atto
della dichiarazione ovvero possa valutarla; 
      c) nel caso che possa valutarla, come suggerisce la risposta al
quesito da parte  del  CSM  del  31  maggio  2006  (limitatamente  al
processo  civile),  quali  siano  gli  effetti   concreti   di   tale
valutazione e in particolare, seppure argomentata da parte  del  Capo
dell'ufficio: 
        a)  sia  mera  espressione   di   un   principio   di   leale
collaborazione tra giudice e Capo dell'ufficio,  prevalendo  in  ogni
caso la dichiarazione d'astensione del giudice  che  ritiene  di  non
aderire neppure all'argomentazione del Capo dell'ufficio ovvero; 
        b) vincoli, e se si' in die modo, il giudice dichiarante». 
    Il Consiglio Superiore della Magistratura, come  ricordato  anche
dall'interpellante,  ha  gia'  affrontato,  per  ben  due  volte,  la
questione con riferimento alle  ipotesi  di  astensione  del  giudice
civile. Nella prima  risposta  a  quesito  del  31  maggio  2006,  il
Consiglio aveva chiaramente riconosciuto un potere di valutazione  in
capo al dirigente dell'ufficio che non doveva, pertanto, limitarsi  a
prendere atto della dichiarazione di astensione del singolo  giudice,
ma doveva verificare la corrispondenza della  fattispecie  denunziata
quale motivo di astensione a una di  quelle  previste  dall'art.  51,
comma 1, numeri. 1-5, del c.p.c. 
    Si legge, infatti,  nella  predetta  delibera:  «Tanto  premesso,
rispondendo al quesito del magistrato  richiedente,  puo'  affermarsi
che il capo dell'ufficio investito della dichiarazione del motivo  di
astensione non puo' limitarsi ad una passiva ricezione ed alla  presa
d'atto di quanto dichiarato dal giudice. Il principio della terzieta'
ed imparzialita' deve trovare, infatti, un necessario contemperamento
con  il  principio  del  giudice  naturale,  anch'esso   di   livello
costituzionale (art. 25 Cost.), di modo che il dirigente dell'ufficio
investito della dichiarazione del motivo di astensione deve  valutare
la  sussistenza  delle   circostanze   dedotte   a   sostegno   della
dichiarazione  stessa.  Solo   la   puntuale   corrispondenza   della
fattispecie denunziata con quelle previste dai numeri  1-5  dell'art.
51, comma 1, del codice di procedura civile legittima la sostituzione
del magistrato e, quindi, la coerente conciliazione del principio  di
terzieta' e imparzialita' con  quello  di  salvaguardia  del  giudice
naturale.  ln  conclusione,  il  capo  dell'ufficio  di  fronte  alla
dichiarazione di astensione del magistrato giudicante  di  una  causa
civile, con provvedimento adeguatamente motivato, deve: 
      a)  nel  caso  di  astensione   obbligatoria,   verificare   la
corrispondenza  della  fattispecie   denunziata   quale   motivo   di
astensione a una di quelle fissate dall'art. 51, comma 1, numeri 1-5,
c.p.c; 
      b) nel caso di astensione facoltativa, valutare  la  situazione
di fatto rappresentata dal richiedente e le ragioni di convenienza ai
fini   dell'accertamento    della    possibilita'    di    violazione
dell'imparzialita'  e   terzieta'   della   giurisdizione   affermate
dall'art. 11 Cost.. Inoltre, le  valutazioni  del  capo  dell'ufficio
saranno  dirette  ad  evitare,  nell'interesse  del  buon   andamento
dell'ufficio, ingiustificate sottrazioni da parte dei  giudici  dalle
cause loro assegnate con danno conseguente per  l'organizzazione  del
lavoro e violazione del principio del giudice naturale». 
    In data 16 aprile  2009,  il  Consiglio,  nuovamente  sollecitato
sulla questione con un nuovo quesito formulato da  altro  magistrato,
era invece giunto a conclusioni diverse escludendo,  sostanzialmente,
un controllo del dirigente. 
    Si legge, infatti, nella predetta risposta a quesito: «Si osserva
al riguardo che I'art. 51 c.p.c. prevede al primo  comma  i  casi  di
astensione obbligatoria del giudice, e al secondo  comma  i  casi  di
astensione facoltativa. Soltanto per questi ultimi  e'  prevista  una
procedura  incidentale   che   investe   la   competenza   del   capo
dell'ufficio,  al  quale  il   giudice   infatti   «puo'   richiedere
l'autorizzazione ad astenersi»,  mentre  per  i  casi  di  astensione
obbligatoria essa ha effetto in  base  alla  sola  dichiarazione  del
giudice che ritenga di ravvisare una situazione che l'imponga. In tal
senso,  oltre  alla  chiara  lettera  della  norma,  versa  anche  la
giurisprudenza di legittimita', che con sentenza  Cass.  23  febbraio
1981, n. 1093 ha precisato che «L'autorizzazione ad  astenersi  viene
richiesta, e puo' essere concessa,  solamente  nell'ipotesi  prevista
dal secondo comma dell'art. 51 c.p.c, mentre nei casi elencati dal n.
1 al  numero  5  dello  stesso  articolo  il  giudice,  obbligato  ad
astenersi, ha, tutt'al piu', l'onere di' comunicare  l'astensione  al
capo dell'ufficio, il quale non  deve  autorizzarla  ma  limitarsi  a
prender atto dell'astensione e a  provvedere  alla  sostituzione  del
giudice astenutosi». Tale principio risulta ripetuto anche  in  tempi
successivi nella giurisprudenza di legittimita' nelle rare  occasioni
in cui si e'  dovuta  occupare  della  questione  (v.  Cassazione  20
febbraio 1998, n. 12842), e risulta  certo  conforme  a  diritto.  Ne
discende, pertanto, che  e'  responsabilita'  esclusiva  del  giudice
quella  di  valutare  la  sussistenza  delle  ragioni  di  astensione
obbligatoria  previste  dal  primo  comma  dell'art.  51  codice   di
procedura penale (fra le quali vi e' quella dichiarata  nel  caso  di
specie  dalla  dott.ssa  ...),  non  potendo  il  capo   dell'ufficio
disattenderne al riguarda le determinazioni ma dovendo esclusivamente
prenderne atto e adottare i provvedimenti di conseguenza. E' altresi'
evidente che le ragioni di' sussistenza di tale  tipo  di  astensione
sono rigorosamente ancorate al modello astratto previsto dalla legge,
e pertanto sul magistrato  chiamato  alle  necessarie  valutazioni  e
determinazioni  incombe  anche   ogni   responsabilita'   che   possa
ravvisarsi in merito ad eventuali abusi che possa  compiere  nel  far
cio'». 
    Orbene, ritiene il Consiglio  che,  anche  nel  caso  di  specie,
relativo, come detto, ad un'ipotesi di astensione del giudice  penale
riconducibile all'art. 37 codice di procedura penale come  modificato
dalla sentenza della  Corte  costituzionale  283/2000,  debba  essere
confermato il principio indicato nella prima risposta a  quesito  del
31 maggio 2006 in quanto se e' pur vero che nel  caso  di  astensione
obbligatoria «e' responsabilita'  esclusiva  del  giudice  quella  di
valutare la sussistenza delle ragioni di astensione», deve, tuttavia,
riconoscersi in capo al dirigente  dell'ufficio  la  possibilita'  di
verificare  la  corrispondenza  della  fattispecie  denunziata  quale
motivo di astensione a una di quelle previste dai codici  di  rito  e
cio' perche', come gia' chiarito nella precedente risposta a quesito,
«il principio della terzieta' ed imparzialita' deve trovare (...)  un
necessario contemperamento con il  principio  del  giudice  naturale,
anch'esso di livello costituzionale (art. 25 Cost.), di modo  che  il
dirigente dell'ufficio investito della dichiarazione  del  motivo  di
astensione deve valutare la sussistenza delle circostanze  dedotte  a
sostegno della dichiarazione stessa ...». 
    Il Presidente del Tribunale aveva poi cura di' diffondere  questa
risposta a  quesito  tra  tutti  i  magistrati  addetti  all'ufficio.
Successivamente il procedimento, come  sopra  detto  in  carico  allo
scrivente, subiva un rinvio per la partecipazione dei difensori  allo
sciopero  degli  avvocati  e  veniva  rinviato  all'odierna  udienza,
proveniente dalla precedente udienza del 19 settembre  2018,  ove  il
decidente prospettava  la  possibilita'  di  sollevare  questione  di
legittimita' costituzionale,  per  una  migliore  preparazione  delle
parti pubbliche e private ove avessero voluto interloquire. 
    Tanto premesso, ed essendo ovvia la rilevanza delle questioni  di
legittimita' costituzionale che si andranno ad esporre, in quanto  si
tratta di individuare i criteri legali secondo i quali  possa  o  non
possa trattare lo  scrivente  magistrato  il  presente  procedimento,
giova osservare, in diritto, quanto segue. 
    § 1 - Se sia rilevante o meno, ai fini del decidere  la  presente
questione di legittimita' costituzionale, l'effettiva competenza  del
consiglio  superiore  della  magistratura  nella  materia.  -  Questo
giudice ha deciso di porre un quesito  al  CSM,  il  quale  ha  avuto
l'esito di cui sopra. Con cio', ovviamente, riteneva che tale  organo
avesse competenza pronunciarsi, per i motivi dallo  stesso  affermati
gia' da 2006, - coinvolgendo la  questione  «...  la  competenza  del
Consiglio superiore  della  magistratura  a  rispondere  al  quesito,
investendo   esso   materia   attinente   all'organizzazione    della
giurisdizione ...». 
    Ma, ove tale competenza non sussista, sta di fatto che  l'attuale
problema riguarda uno stallo che gia'  c'era  prima  che  il  quesito
stesso fosse formulato. Sia l'argomentazione, invero scarna  e  quasi
esclusivamente ripetitiva dei precedenti  dello  stesso  CSM,  sia  i
risultati a cui perviene la nota  protocollo  P  3476/2018,  appaiono
discutibili sotto diversi profili, ma un principio di  correttezza  e
di leale collaborazione comporta che tale posizione del CSM non venga
ulteriormente  contrastata  in  via  formale,  magari  proponendo  un
conflitto tra poteri dello Stato, peraltro dall'esperibilita' dubbia. 
    Resta il fatto che tale decisione puo' essere presa come  oggetto
di valutazione, per quanto  essa  rappresenta  nell'ambito  dell'iter
argomentativo formatosi sulla questione, e non quale atto formale  in
se' della procedura. 
    La nota P 3476/2018 peraltro  non  rispondeva  che  in  parte  al
quesito proposto dal giudice, il quale invece si  faceva  carico  non
solo di sapere se il Presidente del tribunale poteva o meno sindacare
il contenuto della dichiarazione di astensione obbligatoria, ma quali
ricadute vi fossero  una  volta  che  entrambi  i  soggetti,  giudice
rimettente  da  un  lato  e   capo   dell'ufficio   dall'altro,   non
intendessero recedere dalle loro  posizioni.  In  particolare,  nella
predetta nota csm P 3476/2018 non si rispondeva in alcun  modo,  come
invece  richiesto  dall'articolato  quesito  di  questo  Giudice,  ai
seguenti quesiti: 
      se  il  giudice  avesse  il  dovere  di  reiterare  la  propria
dichiarazione, come sembrava necessario. Posto infatti che il giudice
fosse convito di  tale  dovere,  l'inciso  «come  sembra  necessario»
contenuto nel  quesito  non  era  meramente  retorico,  ma  attingeva
proprio a quanto richiamato dal parere del 2006, il quale, come sopra
visto, richiamava a sua volta la sentenza della Cassazione sez. Unite
del 19 settembre 2003, di conferma delle  decisioni  emesse  in  sede
disciplinare: «a fronte del  fondamentale  rilievo  che  nel  sistema
costituzionale assumono i beni  protetti  dal  dovere  di  astensione
(l'imparzialita' e la terzieta' del  Giudice)»,  deve  ritenersi  che
«corrispondentemente, di grandissima intensita' deve essere l'impegno
del magistrato nell'individuazione delle situazioni  di  pericolo  e,
con  tutta  la  determinazione  necessaria,  delle  possibilita'  che
l'ordinamento appresta  per  evitare  il  grave  pregiudizio  che  la
mancata astensione reca alla credibilita' della giurisdizione  e  del
magistrato stesso», cosi' che, «se e' vero che  la  legge  non  offre
rimedi al magistrato che abbia presentato istanza di  astensione  nei
confronti del provvedimento che non la accolga, resta pur  fermo  che
e'  dovere  del  magistrato  presentare  l'istanza  ed  eventualmente
reiterarla  o  comunque  assumere  anche  le  opportune   iniziative,
all'interno  del  sistema  dell'amministrazione  della  giurisdizione
(come ad esempio la segnalazione  agli  organi  ai  quali  spetta  la
vigilanza), per evitare la lesione dei principi del giusto processo».
Con il che appare evidente che questa sentenza della Cassazione, resa
in sede disciplinare, poneva l'accento su un preciso dovere  di  ogni
magistrato di segnalare che una sua istanza fosse stata indebitamente
disattesa dal capo  dell'ufficio.  Laddove,  poi,  andava  certamente
debitamente  approfondito  l'aspetto  di  un'effettiva  gravita'  del
comportamento  del  capo  dell'ufficio  stesso;  in  ogni  caso,  con
ricadute importanti nell'ambito dei rapporti interni all'ufficio,  e,
segnatamente, nell'ambito dei rapporti tra il Presidente  di  sezione
ed il Presidente del tribunale, in un piccolo tribunale  che  ha  una
pianta organica di 13 unita'  complessivamente:  qui  forse,  ma  non
certo ai fini sottintesi dal Presidente del tribunale,  non  sembrava
un fuor d'opera il riferimento, fatto nella nota di quest'ultimo  del
27 gennaio 2017 alle «... valutazioni di competenza  [del  Presidente
della corte d'appello], atteso il  potenziale  conflitto  evidenziato
nella suddetta nota che potrebbe  coinvolgere  i  vertici  di  questo
Tribunale». Che tutto cio' potesse essere al riparo  del  rischio  di
gravi disfunzioni, di fatto,  dell'attivita'  lavorativa  nell'ambito
dell'ufficio giudiziario, e' opinione molto ottimistica. Si badi  che
l'obbligo di segnalazione prospettato  come  sopra  dalla  Cassazione
riguardava  un'ipotesi  in  cui  era   stata   rigettata   dal   Capo
dell'Ufficio   addirittura   una   richiesta   di   astensione   c.d.
facoltativa; 
      se, nel caso che il Presidente del Tribunale  potesse  valutare
la  dichiarazione  d'astensione  obbligatoria,  come  suggerisce   la
risposta  al  quesito  da  parte  del  CSM   del   31   maggio   2006
(limitatamente al processo civile), quali siano gli effetti  concreti
di tale valutazione e in particolare, seppure  argomentata  da  parte
del Capo dell'ufficio; 
      se la valutazione che fa il Presidente del tribunale  sia  mera
espressione di un principio di leale  collaborazione  tra  giudice  e
Capo  dell'ufficio,  prevalendo  in  ogni   caso   la   dichiarazione
d'astensione  del  giudice  che  ritiene  di  non   aderire   neppure
all'argomentazione   (successiva,   e   ove   esternata)   del   Capo
dell'ufficio; 
      ovvero se tale valutazione vincoli, e se si' in  che  modo,  il
giudice dichiarante. Veramente, a tale ultima domanda la risposta che
si  poteva  ricavare  dalla  citata  Cassazione  sez.  Unite  del  19
settembre 2003 era, almeno in parte, molto chiara, cioe'  il  Giudice
non «autorizzato» all'astensione deve uniformarsi  e,  se  del  caso,
fare  segnalazione  disciplinare  contro  il   suo   Presidente   del
Tribunale.  Quello  che  non  si  poteva  ricavare  da  tale  arresto
giurisprudenziale era piuttosto quale  sarebbe  stata  la  sorte  del
fascicolo, proprio  dal  punto  di  vista  «amministrativo»,  essendo
ripetutamente sottolineata la natura amministrativa del  procedimento
per l'astensione, sia nel processo penale che nel processo civile. Si
apre cosi' altro delicato scenario su conseguenze,  per  cosi'  dire,
prosaiche e banali ma estremamente  rilevanti  ai  fini  della  buona
organizzazione degli uffici  giudiziari  di  cui  all'art.  97  della
costituzione. E tali conseguenze non possono  che  prospettarsi  come
segue: 
        1) il fascicolo rimane formalmente in carico al  giudice  che
in  tal  modo  aveva  ritenuto  il  proprio  dovere   di   astensione
obbligatoria, la cancelleria ovviamente non potendo  che  uniformarsi
alle disposizioni del Presidente del tribunale; 
        2) il fascicolo rischia di rimanere di fatto  «orfano»  anche
su istanze urgenti ed importanti quali istanze su misure cautelari in
atto ovvero richieste sopravvenute di misure cautelari da  parte  del
pubblico ministero. Infatti appare un rimedio ben poco  utile  quello
suggerito dalla cassazione, a fronte del seguente scenario: posto che
l'astensione e' obbligatoria e supponendo che l'intimazione del  capo
dell'ufficio al giudice di tenere e trattare  comunque  il  fascicolo
sia chiaramente e palesemente illegittima, cio' non  toglierebbe  che
il fascicolo dovrebbe essere trattato da un giudice nelle  condizioni
di grave pregiudizio da lui stesso segnalate  e  l'unica  conseguenza
sarebbe  quella  «punitiva»  nei  confronti  del  capo  dell'ufficio,
limitatamente all'ipotesi in cui egli abbia  negato  l'autorizzazione
ad astenersi, nell'ipotesi di  astensione  obbligatoria,  in  maniera
palesemente illegittima. Senza contare, infine, la considerazione che
non sempre un contrasto del  genere  poteva  indurre  il  giudice  ad
effettuare una segnalazione agli organi disciplinari, sul  necessario
presupposto di una chiara violazione  di  legge  da  parte  del  capo
dell'ufficio (questo, e non altro, dice Cassazione sez. Unite del  19
settembre  2003).  Infatti  tale  segnalazione  appare   quanto   mai
contraddistinta da pesantissimi oneri decisionali, con riferimento, a
tacer d'altro, al rischio di un conflitto preoccupante per  le  sorti
dell'intero  ufficio  (sino  al  trasferimento  per  incompatibilita'
ambientale di uno dei due soggetti in contrasto) rispetto al quale il
rischio  dell'imparzialita'  per  un  singolo  procedimento,   seppur
importante, diveniva addirittura ampiamente recessivo, soprattutto in
tutti quei casi di possibile opinabilita' delle questioni, le  quali,
e non sembri qui una contraddizione, rispetto quanto sopra affermato,
spesso solo a posteriori risultano «chiare». E che tale  opinabilita'
delle questioni fosse materia tutt'altro  che  residuale  ne  da'  la
prova provata la visione delle contraddittorie e talora assolutamente
incomprensibili, prese di posizione da parte del CSM  sulla  materia.
Ci si riferisce, in particolare, al fatto che la delibera del CSM del
2006,  imponendo  la  prevalenza   «dell'autorizzazione»   del   Capo
dell'Ufficio, trascura assolutamente quanto chiaramente detto, per il
processo civile, nelle sentenze del 1981 e del 1998,  su  cui  ci  si
soffermera' oltre. Ne' si dimentichi, infine, che  Cassazione  ss.uu.
n. 21947/2004; 
        prende  in  esame  l'obbligo  del  giudice  di  segnalare  un
malgoverno, da parte del Capo dell'Ufficio, del potere di autorizzare
l'astensione,  proprio  nell'ipotesi  in  cui  piu'   ampia   e'   la
valutazione del Capo dell'Ufficio medesimo, e cioe' un'ipotesi in cui
sussistono semplicemente «gravi motivi di convenienza». 
    L'opinabilita' insita in molte ipotesi di astensione obbligatoria
non distoglie, quindi, la  Cassazione  dal  segnalare  che  anche  in
questi casi vi potrebbe essere luogo per denuncia disciplinare. 
    § 2 - Se, ed in che modo, la procedura vigente  per  il  processo
civile possa fungere da tertium comparationis . - La risposta, per le
considerazioni che seguono in questo paragrafo non solo  deve  essere
positiva, ma si inserisce in un quadro per certi aspetti paradossale,
poiche' e' previsto in caso di ipotesi di astensione obbligatoria  un
automatismo, e  di  conseguenza  una  tutela  della  valutazione  del
giudice che vige nel processo civile ma non nel processo penale. 
    L'art. 51 codice di procedura civile ultimo comma prevede. 
    In ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di  convenienza,
il giudice puo' richiedere al capo dell'ufficio  l'autorizzazione  ad
astenersi ... 
    L'art. 78 disp.att.c.p.c. prevede 
    Il giudice istruttore, che riconosce l'esistenza di un motivo  di
astensione a norma dell'art.  51  del  codice,  deve  farne  espressa
dichiarazione oppure istanza  scritta  al  Presidente  del  tribunale
appena ricevuto il decreto di nomina ... 
    L'art. 36 del codice di procedura penale prevede. 
    1. Il giudice ha l'obbligo di astenersi: ... 
    3. La dichiarazione di astensione  e'  presentata  al  Presidente
della corte o del tribunale che decide con decreto  senza  formalita'
di procedura. 
    Se si pone l'attenzione sull'ipotesi di astensione  obbligatoria,
nell'uno e nell'altro processo gia' il tenore letterale da' conto  di
una netta differenza; 
    Solo nell'ipotesi  di  astensione  c.d.  facoltativa  il  giudice
civile chiede al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi, non
cosi' nel caso di astensione obbligatoria. 
    L'art. 51 ultimo comma va letto in combinato, sotto il profilo da
ultimo messo in luce, con l'art. 78 disp. Att., in cui all'astensione
obbligatoria corrisponde l'espressa  dichiarazione  e  all'astensione
facoltativa l'stanza scritta, la quale non puo'  che  essere  rivolta
che al Capo dell'ufficio.  E  cio',  nel  suo  nitore  letterale,  va
affermato a prescindere  da  diverse  interpretazioni  che  avrebbero
voluto accomunare l'endiade dichiarazione/istanza quale informe  mero
veicolo di richieste al capo dell'ufficio. 
    A non dissimili approdi giunge la giurisprudenza. Chiaro e  netto
il primo dei due arresti della cassazione civile  sopra  citati:  «Va
osservato,  anzitutto,  che  il  provvedimento  del  Presidente   del
Tribunale di Lanciano e' del tutto abnorme.  Invero  l'autorizzazione
ad astenersi viene richiesta e puo' essere concessa  solamente  nella
ipotesi prevista dal secondo comma  dell'art.  51  cod.  proc.  civ.,
mentre nei casi elencati dal n. 1 al n. 5 stesso articolo il Giudice,
obbligato ad astenersi,  ha,  tutt'al  piu',  l'onere  di  comunicare
l'astensione al capo dell'ufficio,  il  quale  non  autorizza  ma  si
limita a prendere atto della astensione e, se e' necessario, provvede
a sostituire la persona del Giudice». Significativo e' l'inciso della
Cassazione,  la  quale  addirittura   censura   come   atto   abnorme
l'autorizzazione data dal Presidente del Tribunale  di'  Lanciano  in
ipotesi  di  astensione  obbligatoria,  dovendo  semmai   essere   il
provvedimento corretto quello di una mera presa d'atto. 
    Nello stesso senso Cassazione Sez. 1, n.  1842  del  20  febbraio
1998: 
    «...E' opportuno,  peraltro,  rilevare  che  l'autorizzazione  ad
astenersi prevista dal comma 2^  dell'art.  51  codice  di  procedura
civile - alla cui omissione sembra volersi riferire il  ricorrente  -
deve essere dal giudice richiesta al capo  dell'ufficio  nell'ipotesi
di astensione  per  «gravi  ragioni  di  convenienza»  con  implicita
esclusione nell'ipotesi di astensione obbligatoria prevista nei  casi
elencati dal lo C. (numeri 1-5) dello  stesso  articolo.  L'onere  di
comunicare  l'astensione  deve  essere   osservato   solo   se   alla
designazione di altro giudice deve provvedere il capo dell'ufficio». 
    Di qui l'evidente errore in cui incorre  la  risposta  a  quesito
fornita dal CSM il 31  maggio  2006,  ove,  proprio  in  un  caso  di
prospettato obbligo di  astenersi  da  parte  del  giudice  ai  sensi
dell'art. 51, comma l, n. 3), il predetto organo  dichiarava  che  il
Capo dell'Ufficio deve:  a)  nel  caso  di  astensione  obbligatoria,
verificare  la  corrispondenza  della  fattispecie  denunziata  quale
motivo di astensione a una di quelle fissate dall'art. 51,  comma  1,
numeri 1-5, codice di procedura civile (v. sopra). 
    Assai diversa, stante il  tenore  letterale  dell'art.  36  sopra
richiamato, la  giurisprudenza  penale  nell'interpretare  l'art.  36
codice di procedura penale: 
    Cassazione Pen. Sez. 1, n. 40159 del 2009. 
    « ... come questa Corte ha gia' avuto modo di affermare (v.,  per
tutte, Cassazione 2^ 8 febbraio  2000,  Z,  RV  215700),  il  decreto
presidenziale che decide  senza  formalita'  sulla  dichiarazione  di
astensione e'  sottratto  ad  ogni  forma  di  gravame,  sia  per  il
principio di tassativita' delle impugnazioni, sia perche'  si  tratta
di provvedimento meramente ordinatorio, di  natura  amministrativa  e
non giurisdizionale, i cui  effetti  rimangono  limitati  nell'ambito
dell'ufficio; ne' puo' ritenersi che tale regime sia lesivo in  alcun
modo dei principi costituzionali di uguaglianza, tutela della  difesa
ed imparzialita' del Giudice, potendo la parte  interessata  proporre
tempestivamente dichiarazione di ricusazione, la decisione in  ordine
alla  quale  e'  emessa  all'esito  di  una  procedura   svolta   nel
contraddittorio ed e' ricorribile per Cassazione ai  sensi  dell'art.
127 c.p.p. ...». 
    Cassazione Pen . Sez. 2, n. 16345 del 10 febbraio 2012. 
    Il provvedimento con cui il Presidente del  tribunale  revoca  il
suo precedente decreto relativo alla decisione sulla dichiarazione di
astensione si sottrae, al pari dell'atto revocato, ad ogni  forma  di
gravame, sia per il principio di tassativita' delle impugnazioni  che
per la sua natura non giurisdizionale. 
    Sez. 6, Sentenza n. 776 del 1998. 
    «La questione sulla ammissibilita' della impugnazione del decreto
presidenziale, che decide sulla astensione del Giudice,  deve  essere
decisa senz'altro in senso negativo. 
    La «ratio»  di  assicurare  il  valore  della  imparzialita'  del
Giudice,  che  accomuna  gli  istituti  della  astensione   e   della
ricusazione, non ne comporta anche la unitaria  disciplina,  data  la
loro diversa natura giuridica  ed  il  diverso  sviluppo,  sul  piano
procedimentale, del relativo «iter». 
    Infatti, mentre il procedimento di ricusazione  assume  tutte  le
caratteristiche    del    procedimento    incidentale    di    natura
giurisdizionale - diretto a verificare le condizioni  di  regolarita'
di un determinato rapporto processuale mediante la  iniziativa  delle
parti legittimata a chiedere la rimozione del  Giudice  sospetto,  in
procedimento camerale ex art. 127 cpp, nel quale la decisione  spetta
al Giudice collegiale di grado superiore  a  quello  che  si  intende
ricusare -  la  procedura  semplificata  prevista  per  l'astensione,
rimasta sostanzialmente immutata rispetto  a  quella  del  previgente
codice di rito del 1930, si caratterizza per l'assenza di particolari
formalita', in quanto sulla istanza di  astensione  la  decisione  e'
adottata «con decreto senza formalita' di procedura» (art. 36,  terzo
comma, cpp); senza che debbano essere sentite le parti  del  processo
principale e lo stesso Giudice, che ha dichiarato  di  astenersi,  al
quale  dovra'  soltanto  essere  comunicata  la  decisione   assunta,
affinche' lo stesso possa continuare ad esercitare  le  sue  funzioni
nel  processo  o  debba,  invece,  astenersene   per   essere   stato
sostituito. 
    Di conseguenza - secondo quanto espressamente rileva la relazione
ministeriale in adesione ad analoga conclusione, cui  perviene  anche
la dottrina - quello che si instaura  tra  il  Giudice  astenutosi  e
l'organo decidente sulla relativa  istanza  costituisce  un  rapporto
giuridico di carattere  interno  all'ufficio  giudicante;  di  natura
amministrativa e non giurisdizionale; che non coinvolge le parti  del
procedimento penale, le quali non sono chiamate ad  interloquire  ...
omissis  ...  La  inoppugnabilita'  del  decreto  che  decide   sulla
dichiarazione di astensione  nonche'  il  carattere  semplificato  ed
informale della relativa procedura non appaiono neppure in  contrasto
con le norme  degli  articoli  3  e  24,  secondo  comma,  Cost.,  in
riferimento  alle  quali  il  ricorrente  ha  proposto  eccezione  di
costituzionalita'. Quanto al  contrasto  con  l'art.  3  Cost.,  deve
ribadirsi - secondo quanto questo Giudice  di  legittimita'  ha  gia'
stabilito (Cass. pen. , 23 dicembre 1996, ric. M. T., m.  CED  207.02
6) - che il principio di eguaglianza o ragionevolezza del primo comma
della suddetta norma primaria non puo' dirsi violato, poiche' in base
alla natura giurisdizionale del procedimento di ricusazione  ed  alla
natura amministrativa interna del procedimento di  astensione  appare
logicamente   giustificata   la   differente   disciplina   dei   due
procedimenti  e   del   distinto   regime   di   impugnabilita'   del
provvedimento decisorio. 
    La violazione  dell'art.  24,  secondo  comma,  Cost.,  sotto  il
profilo della limitazione del diritto di difesa, viene  invocata  dal
ricorrente in base alla considerazione della  definitivita'  e  della
insindacabilita' del provvedimento presidenziale sulla  dichiarazione
di astensione, che impedirebbe all'imputato di far valere il  proprio
diritto ad essere giudicato da un  Giudice  imparziale  precostituito
per legge; ma anche detta prospettazione non puo'  essere  condivisa.
Invero - data la funzione preventiva  cui  assolve  l'istituto  della
astensione e della quale e' espressione la norma  dell'art.  39  cpp,
che demanda innanzitutto alla  obbligatoria,  personale  e  spontanea
iniziativa del Giudice la rimozione di cause  di  incompatibilita'  -
nel caso in cui la dichiarazione di astensione viene accolta,  nessun
pregiudizio  puo'  derivare  all'imputato  dalla  definitivita'   del
provvedimento e dalla sua insindacabilita' risultandone tutelata, con
la integrita' ed il prestigio della giurisdizione, la imparzialita' e
la  indipendenza  del  Giudice.  Nel  caso   in   cui,   invece,   la
dichiarazione di astensione non venga accolta, non  per  cio'  deriva
all'imputato il pregiudizio di una minorata sua difesa  a  fronte  di
una situazione di sospetto di parzialita', in  quanto,  la  pronuncia
negativa sulla astensione non impedisce, relativamente alla  medesima
causa di denunciata incompatibilita',  di  provocarne  un  successivo
esame  a  seguito  di  istanza  di  ricusazione  non   preclusa,   in
procedimento formale ex art. 127 cpp, rispettoso  del  principio  del
contraddittorio e del diritto di difesa ex art.  24,  secondo  comma,
Cost. ...» 
    § 3 - Le pronunce della Corte costituzionale sul punto - Circa la
specifica problematica che qui si affronta, non sussistono precedenti
in   termini.   Peraltro   si   possono   prendere   alcuni    spunti
dall'articolata pronuncia resa con ordinanza n. 86 del 2013. 
    Cosi' il testo dell'ordinanza che riporta di seguito la posizione
del Giudice e delle altre parti. 
    «Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo  ha
sollevato: 
      a) in riferimento agli articoli 3, 24,  25,  101  e  111  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art.  36,
comma 1, lettera g), del codice di procedura penale,  «nella  lettura
in combinato disposto con l'art.  34»  dello  stesso  codice,  «nella
parte in cui prevede che, nel caso in cui  vi  sia  «incompatibilita'
del giudice  determinata  da  atti  compiuti  nel  procedimento»,  il
giudice  debba  formalizzare  richiesta  di   astensione   in   luogo
dell'attivazione  di  automatismi  di  tipo   tabellare   preordinati
dall'ufficio»; 
      b) in riferimento agli articoli 3, 24, 25,  101  e  111  Cost.,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 36, comma 3,  cod.
proc. pen., «nella lettura in combinato disposto con l'art. 34» dello
stesso codice, «nella parte in cui prevede che, nel caso  in  cui  vi
sia «incompatibilita' del giudice determinata da  atti  compiuti  nel
procedimento»,  il  Presidente   del   Tribunale   possa   «decidere»
discrezionalmente  sull'astensione  imponendo  al  giudice  del  rito
abbreviato la prosecuzione del giudizio nel caso  in  cui  lo  stesso
abbia definito l'udienza preliminare con  il  rinvio  a  giudizio  di
co-imputati per un reato associativo e/o plurisoggettivo»; 
      c) in  riferimento  agli  articoli  3,  24,  25  e  111  Cost.,
questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  36  [recte  34],
comma 2, cod. proc. pen. , «nella lettura in combinato  disposto  con
l'art. 34» [recte 36] dello stesso codice, «nella  parte  in  cui  le
parole «Non puo' partecipare al giudizio il giudice che ha emesso  il
provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare» siano interpretate
nel senso  di  attribuire  al  giudice  -  che  ha  deciso  l'udienza
preliminare con il  rinvio  a  giudizio  di  imputati  per  un  reato
associativo e/o plurisoggettivo - la possibilita' di  decidere  anche
il giudizio abbreviato nei confronti  degli  altri  imputati  per  la
stessa rubrica, essendo questi ultimi privati della possibile formula
assolutoria «perche' il fatto non sussiste»; 
      d) in  riferimento  agli  articoli  3,  24,  25  e  111  Cost.,
questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  36  [recte  34],
comma 2, cod. proc. pen. , «nella lettura in combinato  disposto  con
l'art. 34» [recte 36] dello stesso codice, «nella  parte  in  cui  le
parole «Non puo' partecipare al giudizio il giudice che ha emesso  il
provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare» siano interpretate
nel senso di permettere,  comunque,  la  partecipazione  al  giudizio
abbreviato da parte dello stesso  giudice  dell'udienza  preliminare,
che aveva gia' prima deciso, con il rinvio a giudizio e nei confronti
di altri co-imputati, il processo relativo alla imputazione per reato
associativo, plurisoggettivo e/o a partecipazione necessaria», 
    Nella vicenda, complessa  in  fatto  anche  se  compendiabile  in
alcuni specifici punti di diritto, secondo  alcuni  commentatori,  il
rimettente vorrebbe travolgere il «combinato disposto» dell'art.  36,
comma 1, lettera g), e  dell'art.  34  c.p.p.,  nella  parte  in  cui
prevede che, qualora vi  sia  incompatibilita'  determinata  da  atti
compiuti nel procedimento, il giudice debba formalizzare richiesta di
astensione  in  luogo  dell'attivazione  di  automatismi   di'   tipo
tabellare preordinati dall'ufficio. 
    L'attuale regime, fondato  sulla  decisione  del  presidente  del
Tribunale o della  Corte  di  appello,  violerebbe  il  principio  di
indipendenza (art. 101, secondo comma, Cost.), perche', «trasforma un
giudice soggetto soltanto alla legge in un  giudice  sottomesso  alla
facolta' di un Capo dell'Ufficio condizionando  la  sua  liberta'  di
giudizio e di coscienza». Si aggiungerebbe la lesione dei principi  e
dei diritti sanciti dagli articoli 3, 24,  25,  primo  comma,  e  111
della Costituzione. 
    Con un secondo quesito, e con riferimento agli  stessi  parametri
costituzionali, il rimettente propone in sostanza di  conservare  per
il capo dell'ufficio  il  potere  di  valutare  la  dichiarazione  di
astensione dovuta ad incompatibilita' (avuto  specifico  riguardo  al
giudizio abbreviato su fatti gia' valutati, per altri  imputati,  con
il rinvio a giudizio),  escludendone  per  altro  ogni  connotato  di
discrezionalita'. Il presidente dovrebbe limitarsi  a  prendere  atto
che il giudice non ritiene  di  dovere  e  poter  celebrare  un  dato
giudizio per ragioni di incompatibilita'. E qui e'  stato  acutamente
osservato in dottrina che in questo  caso,  che  e'  assai  simile  a
quello presente, resterebbe sullo sfondo, inesplorato, il tema  della
procedura da seguire  per  il  caso  che,  ad  avviso  del  dirigente
dell'ufficio, l'incompatibilita' non sussista. 
    Solo che qui si tratterebbe di astensione obbligatoria e  non  di
incompatibilita'. 
    Seguendo il percorso della decisione della Corte, 
    «[Per il giudice rimettente] ... e' «evidente che il giudice  (id
est), con il rinvio  a  giudizio  (lo  dice  la  stessa  parola),  ha
giudicato ed ha, quindi, espresso valutazioni di merito sull'accusa»,
e «tuttavia, non basta questa ragionevole constatazione a dare  tutta
la forza necessaria all'eccezione di (il)legittimita'  costituzionale
per la semplice ragione che il codice di procedura penale  -  al  suo
art. 34,  comma  2,  ben  prevede  l'incompatibilita'  gia'  in  modo
espresso:  non  si  puo'  chiedere,  infatti,  la   declaratoria   di
incostituzionalita' di qualcosa che si assume non prevista  allorche'
essa e', invece, prevista» ...  che,  restando  al  giudice  il  solo
strumento  dell'astensione,  in  caso  di  rigetto   della   relativa
dichiarazione, lo stesso dovrebbe procedere nonostante la sua  stessa
volonta'   contraria;   che   il   duplice   paradosso    riguardante
«un'impossibilita' che diventa dovere» e che  «fa,  di  una  facolta'
concessa, una  coazione»  rappresenterebbe  una  «patologia»  al  cui
superamento  sarebbe  indirizzata  la   questione   di   legittimita'
costituzionale sollevata dal rimettente ... «nessuna norma prevede la
possibilita' di rigetto  dell'astensione»  da  parte  del  Presidente
della corte o del tribunale, posto che  il  riferimento  al  «decide»
contenuto nell'art. 36, comma 3, codice di procedura penale «non  per
forza indica una facolta' di reiezione», ma avrebbe collocazione  nel
quadro  delle  prese  d'atto  e  non  nel  contesto  delle  facolta',
soprattutto qualora l'astensione non si  correli  ad  una  condizione
personale del giudice, ma alla rigida  osservanza  della  legge;  che
«lontani da questa logica si perviene al paradosso di un giudice  che
assume di non poter procedere per evitare la violazione di una  legge
ed il suo superiore che lo obbliga assumendo  che  quella  legge  non
sarebbe, in realta', violata», sicche', qualora  l'astensione  derivi
da un'incompatibilita' prevista dalla  legge,  «non  vi  puo'  essere
discretivita' accoglitiva»; che la  violazione  di  questo  principio
inciderebbe sul  diritto  di'  tutti  i  cittadini  ad  avere  uguale
trattamento ed  un  giudice  naturale  precostituito  per  legge  ...
omissis ... si chiede il rimettente se possa dirsi terzo,  imparziale
e attore di un giusto processo  il  giudice  che,  avendo  deciso  il
rinvio a giudizio di tre su  cinque  imputati  (cosi'  implicitamente
suffragando l'ipotesi della sussistenza della circostanza  aggravante
indicata), proceda nel giudizio abbreviato richiesto dagli altri  due
coimputati,  avendo   gia'   affermato   in   sede   preliminare   la
compartecipazione delle cinque persone nel reato ... omissis ...  ne'
potrebbe ritenersi che il rispetto della legge «sia  quello  di  tipo
militare o amministrativo ossia di un  organo  gerarchizzato  che  si
acquieta davanti alla scelta di un suo superiore  anche  se  essa  e'
visibilmente contraria a quella suggerita dalla  sua  interpretazione
delle norme e dalla sua coscienza»; che,  diversamente  interpretata,
la norma  sull'astensione  sarebbe  contraria  all'ispirazione  della
Carta  fondamentale;  che   ulteriori   profili   di   illegittimita'
costituzionale si riferirebbero agli articoli 3, 24, 25 e 111  Cost.;
che anche con riguardo all'uguaglianza  dei  cittadini  davanti  alla
legge, all'inviolabilita' della difesa,  al  giudice  naturale  e  al
giusto processo ... omissis ... 
    E' intervenuto nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione  sia
dichiarata inammissibile o, comunque, non  fondata;  che,  anche  nel
caso  di  astensione  obbligatoria,  il  dirigente  dell'ufficio  non
potrebbe limitarsi ad una passiva  ricezione  e  presa  d'atto  della
dichiarazione del giudice,  in  quanto  l'art.  36  cod.  proc.  pen.
sarebbe ispirato  alla  necessita'  di  contemperare  i  principi  di
terzieta'  e  di  imparzialita'   con   quello,   di   pari   rilievo
costituzionale, del giudice naturale precostituito per legge, sicche'
sarebbe  fondamentale  riconoscere  al  dirigente   dell'ufficio   la
facolta' di valutare  la  sussistenza  delle  circostanze  dedotte  a
sostegno della dichiarazione stessa; 
    che la previsione  normativa  della  necessaria  valutazione  del
dirigente dell'ufficio  sarebbe  diretta  ad  evitare  ingiustificate
sottrazioni, da parte dei giudici, dalla trattazione  di  cause  loro
assegnate; 
    che, pertanto, da un lato, andrebbe escluso che il presidente del
tribunale in relazione ad un motivo di astensione obbligatoria  possa
decidere  discrezionalmente  se  sostituire   o   meno   il   giudice
astenutosi,  dall'altro,   non   potrebbe   essergli   legittimamente
sottratto il sindacato circa la sussistenza dei presupposti  invocati
nella  dichiarazione  di  astensione,  proprio  per  scongiurare   il
pericolo di dichiarazioni non fondate e pretestuose ...  omissis  ...
che la motivazione dell'ordinanza  di  rimessione,  inoltre,  farebbe
trasparire il dubbio che il rimettente cerchi di utilizzare  in  modo
improprio e distorto l'incidente  di  costituzionalita'  al  fine  di
ottenere un inammissibile  avallo  interpretativo  «finalizzato  alla
regolamentazione dei propri rapporti con il  Capo  dell'ufficio»  ...
omissis  ...  che,  osserva  ancora  l'Avvocatura  dello   Stato   il
pregiudizio per  l'imparzialita'  del  giudice  deriva  da  attivita'
compiute in un procedimento diverso, il principio del giusto processo
trova attuazione mediante i piu' duttili strumenti dell'astensione  e
della ricusazione,  anch'essi  preordinati  alla  salvaguardia  delle
esigenze di imparzialita' della funzione giudicante, ma  secondo  una
logica  a  posteriori  e  in  concreto,  senza  oneri  preventivi  di
organizzazione  delle  attivita'   processuali   ...   che,   infine,
l'Avvocatura dello Stato richiama l'ordinanza n. 123 del  1999  della
Corte costituzionale e osserva  che  dell'eventuale  ingiustizia  del
trattamento subito con il decreto presidenziale non  ci  si  potrebbe
dolere in sede di giudizio incidentale di costituzionalita'. 
    Infine, la posizione della Corte 
    «... nell'enunciare la terza e la quarta questione l'ordinanza di
rimessione ha fatto riferimento per errore all'art. 36, comma 2, cod.
proc. pen., anziche' all'art. 34, comma 2, codice di procedura penale
(nonche', subito dopo, all'art. 34 anziche' all'art.  36  cod.  proc.
pen.): infatti l'art. 36, comma 2, disciplina fattispecie  del  tutto
estranee alle questioni in  esame,  mentre  il  periodo  testualmente
riportato dal rimettente e' contenuto nel comma 2 dell'art.  34  cod.
proc.  pen.  ,   sicche',   anche   alla   luce   della   motivazione
dell'ordinanza,  tali  questioni  devono   intendersi   riferite   al
«coinbinato disposto» degli articoli 34, comma 2,  e  36  cod.  proc.
pen.; 
    che l'eccezione non e' fondata; 
    che, infatti, poiche' le questioni sono state sollevate nel corso
del giudizio penale dallo  stesso  giudice  che  procede,  la  natura
giuridica del provvedimento del  dirigente  dell'ufficio  che  decide
sulla dichiarazione di astensione, quale che  essa  sia,  non  assume
alcun rilievo ... omissis ...  l'istituto  dell'incompatibilita',  si
riferisce a situazioni di pregiudizio per l'imparzialita' del giudice
che si verificano all'interno del medesimo procedimento (sentenze  n.
283 e n. 113 del 2000 e ordinanza  n.  490  del  2002)  e  concernono
percio' la medesima regiudicanda (sentenza n. 186 del 1992),  sicche'
esso non comprende l'ipotesi del giudice che, dopo aver  disposto  il
rinvio a giudizio di alcuni imputati, procede con il rito  abbreviato
nei confronti dei  coimputati  del  medesimo  reato;  che  in  questa
ipotesi infatti ci si trova  in  presenza  di  diversi  procedimenti,
destinati, dopo la separazione, alcuni  alla  successiva  definizione
dibattimentale e altri alla  trattazione  nelle  forme  del  giudizio
abbreviato, che rispetto a questi ultimi, percio', non  si  determina
una situazione di incompatibilita' ... omissis ... «pur  non  potendo
escludersi  che,  per  il   peculiare   atteggiarsi   delle   singole
fattispecie,  l'attivita'  che  il  giudice  abbia  compiuto  in   un
precedente procedimento possa determinare  un  pregiudizio  alla  sua
imparzialita' nel successivo procedimento a  carico  di  altro  o  di
altri  concorrenti,  in  simili  casi  -  al  di  la'  delle  ipotesi
particolari che hanno dato luogo alle sentenze n. 371 del 1996  e  n.
241 del 1999 - soccorre sia l'art. 36,  comma  1,  lettera  h),  cod.
proc. pen., nell'interpretazione non restrittiva alla  quale  vincola
il principio del giusto processo (sentenza  n.  113  del  2000),  sia
l'art. 37 cod. proc. pen., come risultante dalla sentenza n. 283  del
2000 di questa Corte, attribuendosi  in  tal  modo  ai  piu'  duttili
strumenti  dell'astensione  e  della  ricusazione   il   compito   di
realizzare il principio del giusto  processo  attraverso  valutazioni
caso per caso  e  senza  oneri  preventivi  di  organizzazione  delle
attivita' processuali» (ordinanza n. 441 del 2001, in una fattispecie
analoga a quella del giudizio a quo), sicche', in ogni  ipotesi,  «lo
strumento di tutela contro l'eventuale pregiudizio  all'imparzialita'
del giudice - pregiudizio da accertarsi in concreto  -  derivante  da
una sua precedente attivita' compiuta in un separato procedimento nei
confronti di coimputati del medesimo  fatto-reato,  non  puo'  essere
ravvisato in ulteriori pronunce sull'art. 34,  comma  2,  cod.  proc.
pen.  ma   deve   essere   ricercato   nell'ambito   degli   istituti
dell'astensione e della ricusazione» (ordinanza  n.  441  del  2001);
che, pertanto, «tenuto conto  della  diversa  sfera  di  operativita'
degli istituti dell'incompatibilita'  e  dell'astensione-ricusazione,
egualmente preordinati alla piena tutela  del  principio  del  giusto
processo» (ordinanza n. 367 del 2002), la terza e la quarta questione
sono manifestamente infondate. 
    § 4 - I profili di illegittimita' costituzionale del sistema:  le
conseguenze dello stallo che deriva dalla persistente difformita'  di
valutazione tra giudice e il capo dell'ufficio in relazione  al  buon
andamento degli uffici giudiziari - Partiamo dal presupposto  che  vi
sia un'ipotesi semplice e piana di dovere di astensione  del  giudice
ai sensi dell'art. 37 del codice  di  procedura  penale,  cosi'  come
modificato dalla nota sentenza della Corte costituzionale numero  286
del 2000. E diamo, per un momento, per scontato  il  fatto  che  tale
ipotesi semplice e piana di astensione sia costituita  proprio  dalla
fattispecie in esame. Un giudice, nella veste di GUP, pure  emettendo
sentenza favorevole all'imputato nei termini sopra  richiamati,  dice
che  in  realta'  e'  rimasto  accertato  che  l'imputato  stesso  ha
falsamente dichiarato lo smarrimento di un assegno,  rendendo  quella
che obiettivamente e' una falsa testimonianza in un processo  civile.
Lo stesso giudice, in veste di giudice  dibattimentale,  si  trova  a
decidere se lo stesso imputato abbia commesso calunnia denunciando lo
smarrimento di un assegno. Pur essendovi altra  sentenza  resa  dallo
stesso  giudice,  nella  quale  viene  affermato  che,  in   realta',
l'imputato  aveva  riconosciuto  «di  essere  stato  costretto  dalle
difficolta' economiche a denunciare l'assegno come smarrito». 
    Di fronte a questa situazione, non si vede  come  si  possa  dire
seriamente che l'imputato o il suo difensore attendano serenamente la
decisione del giudice.  E  gia'  qui,  a  seguito  di  questa  banale
osservazione,  si  vede  quanto  debole  si  mostri  il  tradizionale
insegnamento secondo il quale  la  materia  coinvolge  solo  rapporti
interni all'ufficio giudiziario, e  secondo  la  quale,  semmai,  gli
interessi  dell'imputato  potranno  essere   adeguatamente   tutelati
mediante  la  procedura  di  ricusazione,  quest'ultima  a  carattere
giurisdizionale. Ma, in questo caso, appare evidente che l'istanza di
ricusazione: 
      1) rischierebbe di essere proposta quasi sempre fuori  termine:
se infatti la dichiarazione di astensione obbligatoria la precede  ed
e' frustrata nei modi che abbiamo descritto,  nel  frattempo  saranno
decorsi i termini.  Nel  caso  in  esame  la  notizia  per  la  parte
dell'ipotesi di astensione obbligatoria e' inutilmente decorsa  nelle
more dell'interlocuzione tra questo  giudice  ed  il  presidente  del
tribunale proprio sull'effettiva sussistenza di tale obbligatorieta'; 
      2)  in  ogni  caso,  l'istanza  di  ricusazione,  com'e'  noto,
comporta una «tensione» nell'ambito del processo che  non  sempre  la
difesa, comprensibilmente, accetta di accollarsi; 
      3) laddove, poi, la ricusazione sia  tempestivamente  proposta,
l'intera  procedura,  di   carattere   giurisdizionale   come   tutti
ammettono,  rischia  di   essere   bloccata   da   una   sopravvenuta
«dichiarazione» (o meglio, «istanza»?) del giudice; 
      4)  sarebbe  poi   lecito   domandarsi   se   il   procedimento
giurisdizionale nell'interesse  della  parte,  bloccato  nelle  forme
appena esposte al punto  precedente,  sia  conforme  ai  principi  di
ragionevolezza e di rispetto della giurisdizione, nella misura in cui
il capo dell'ufficio «accoglie» questa astensione. O,  per  dirla  in
forma grammaticalmente piu' corretta, accoglie la «dichiarazione»  di
astensione.  Come  poi  si  possa  «accogliere»,  mediante  un   atto
amministrativo  decisorio,  senza  formalita'  e  senza  neppure   la
necessita' di specifica motivazione, una «dichiarazione», non e' dato
di sapere, laddove, appunto, non si intenda tale  dichiarazione  come
istanza, sulla quale si puo' «decidere» (art. 36 comma quarto) o, per
l'appunto, «accogliere l'astensione». 
    Ma  questi  sono  ancora  problemi  minori.  Si  pensi,  infatti,
all'ipotesi in cui a seguito o meno di un interlocuzione, piu' o meno
articolata, tra giudice ed il capo dell'ufficio, il capo dell'ufficio
disponga autoritativamente la trattazione del procedimento in capo al
giudice il quale abbia dichiarato la propria astensione obbligatoria.
Or bene,  se  il  predetto  giudice,  convinto  della  necessita'  di
astenersi obbligatoriamente in virtu' dei principi costituzionali di'
terzieta', imparzialita', principio del giudice  naturale,  eccetera,
ritenga ancora la validita' delle argomentazioni esposte  a  sostegno
della sua dichiarazione di astensione, potra': 
      1) trattare il processo e,  ove  ne  ricorrano  le  condizioni,
denunciare  disciplinarmente  il  capo  dell'ufficio   per   il   suo
illegittimo comportamento; 
      2) non trattare il processo e, ove ne ricorrano le  condizioni,
denunciare  disciplinarmente  il  capo  dell'ufficio   per   il   suo
illegittimo comportamento; 
      3) non trattare il  processo  e,  a  seguito  di  cio',  essere
denunciato disciplinarmente dal capo dell'Ufficio. 
    Si dira', come osservato indirettamente dai commentatori, che, in
questi  casi  di  conflitto,  non  esistono  soluzioni  in  grado  di
eliminare ogni inconveniente. 
    Ma e' anche vero che, se l'errore e' in capo  al  giudice,  oltre
alle considerazioni  che  verranno  fatte  al  paragrafo  successivo,
l'assegnazione al altro giudice, nel rispetto delle regole tabellari,
sara' rispettosa delle regole di predeterminazione che presiedono  ai
principi del giudice naturale, della terzieta'.  Se  poi  il  giudice
dichiarante erra per colpa grave, lo spostamento del processo, che si
realizzerebbe automaticamente a seguito della sua mera  dichiarazione
avrebbe meno  inconvenienti  rispetto  all'errore  speculare  in  cui
potrebbe invece incorrere il Capo dell'Ufficio, dal momento  che,  in
ogni caso, nella  prima  ipotesi  l'assegnazione  avverrebbe  secondo
criteri obiettivi. E tanto poco appare eterodossa tale soluzione) che
avverrebbe ne' piu' ne' meno  quanto  avviene  nel  processo  civile.
Insomma, segnalare queste anomalie ed evidenziare i  punti  di  crisi
che attraversa il processo ove non regolato da nonne al tempo  stesso
rispettose della logica e dei diritti fondamentali  fa  apparire  del
tutto gratuito «... il dubbio che il rimettente cerchi di  utilizzare
in modo improprio e distorto l'incidente di costituzionalita' al fine
di ottenere un inammissibile avallo interpretativo «finalizzato  alla
regolamentazione dei propri rapporti con il Capo  dell'ufficio»  ...»
come non molto elegantemente  adombrato  dall'Avv.  Dello  Stato  nel
procedimento definito con l'ord. Corte. Cost. n. 86 del  2013,  sopra
richiamata. 
    § 5 - I profili di illegittimita' costituzionale del sistema: «il
giudice dichiarante» e «giudice istante»; la giurisdizione ed i  modi
di «amministrare» la giurisdizione - Il Giudice  prende  visione  del
fascicolo, valuta un'ipotesi  di  astensione  obbligatoria  e  fa  la
relativa «dichiarazione». 
    Che tutto questo sia atto di un  procedimento  amministrativo  e'
opinione assolutamente prevalente, ma tutt'altro che convincente. 
    Che il presidente del Tribunale presieda al corretto  svolgimento
della distribuzione del lavoro giudiziario  nell'ambito  dell'ufficio
e' senz'altro vero, ma neppure va dimenticato che  tale  affermazione
viene da lontano, in un tempo in cui non vigevano  effettivamente  le
garanzie di equa distribuzione degli affari, se non rimessi «all'equo
e insindacabile apprezzamento dei capi  degli  uffici».  Nell'odierno
sistema tabellare il capo dell'Ufficio  deve  semmai  controllare  il
rispetto  delle  regole   tabellari,   che   egli   stesso   concorre
principalmente a fognare,  e  dell'Ordinamento  Giudiziario.  Compito
tutt'altro che  semplice  e  gia'  bastevole  per  assorbire  le  sue
risorse. 
    Ne'  si  puo'  piu'   ritenere   che   distribuire   gli   affari
giurisdizionali sia funzione che  possa  risolversi  secondo  criteri
amministrativi interni. Ed e' molto riduttivo affermare che solo  nel
caso venga attivata la procedura di ricusazione la questione  divenga
di interesse generale ed attinente alle garanzie  costituzionali  del
singolo  soggetto:  si  sono  trattati  sopra  i  limiti  di   questo
meccanismo. 
    Pertanto non appare piu' sostenibile l'insegnamento tradizionale,
e la preminenza del capo dell'ufficio sta o cade  con  esso.  Ma,  se
viene meno, non puo' che  riespandersi  in  tal  modo  il  necessario
rispetto della funzione del giudice soggetto soltanto alla legge ecc. 
    Se si accede a queste prospettive, va rigettata con forza la tesi
di taluni commentatori all'ord. n. 86/2013 della Corte: la  «pretesa»
carenza di garanzie riguarderebbe  piu'  che  altro  l'interesse  del
giudice (sembra di capire quale soggetto dedito agli interessi di se'
medesimo, addirittura quale  persona  fisica,  non  quale  parte  del
processo, e meno che meno quale garante di legalita'),  e  non  certo
quello delle parti processuali, almeno  per  il  caso,  concretamente
piu' rilevante, che venga disconosciuta una situazione  effettiva  di
incompatibilita' (l'Ordinanza di rimessione del GUP di Palermo  tende
effettivamente a sovrapporre i  profili  di  incompatibilita'  e  di'
astensione obbligatoria, la risposta della Corte non  tollera  questa
mancanza di messa a fuoco, ma, alla  fine  riconosce  che  potrebbero
soccorrere altri rimedi rinvenibili proprio, fra l'altro nell'art. 37
nella formula vigente dopo la sentenza additiva del 2000). 
    Si e' accennato sopra anche all'insufficienza, in  via  generale,
del fatto che le parti possano ricusare il giudice.  Oltre  a  quanto
sopra  detto,   appare   sintomatica   la   prevalenza   dell'aspetto
amministrativo su quello giurisdizionale (cfr. art. 39 c.p.p.). 
    Ne' hanno migliore dignita' argomentativa le affermazioni secondo
cui non e' possibile il  giudice  sia  arbitro  esclusivo  della  sua
stessa incompatibilita'. 
    A prescindere dal fatto che questo e' proprio quello  che  accade
nel  processo  civile,  secondo  la  lettera   della   legge   e   il
pronunciamento armai consolidato delle due sentenze sopra richiamate,
quella del 1981 e quella del 1998, non essendovene altre  successive,
a prescindere, ancora, dal fatto che la sentenza del 1981, come sopra
visto, configura come atto «del tutto abnorme» l'autorizzazione  data
dal capo dell'ufficio al giudice  civile  che  versa  in  ipotesi  di
astensione obbligatoria, va osservato che una frase del genere e' una
petizione di principio, che fa  il  paio  con  quella,  perfettamente
speculare, che il capo dell'ufficio  decida  lui,  inappellabilmente,
quando il giudice e' compatibile col fascicolo e quando non lo e'. 
    Bisognera' piuttosto vedere le conseguenze di queste due  opzioni
e, come detto al punto  precedente,  appaiono  molto  piu'  gravi  le
conseguenze di uno stallo derivante dalla prevalenza della  decisione
del capo dell'Ufficio. Senza contare che il capo  dell'ufficio,  come
pure detto, non e' un inerte recettore della dichiarazione,  ma  puo'
interloquire col giudice e, se del caso,  segnalare  disciplinarmente
la situazione. Ne'  occorre  spiegare  ulteriormente  come  sia  piu'
proprio al suo  ruolo  tale  procedere,  piuttosto  che  supporre  il
contrario, cioe' il far prevalere la sua  volonta'  costringendo,  se
del caso, il giudice a segnalare disciplinarmente la situazione. 
    Ancora, si fa un improprio riferimento  all'eventualita'  (niente
affatto teorica) di una contestazione ad opera del nuovo assegnatario
del giudizio. Anche qui si rischia di giocare con  le  parole.  Colui
che subentra secondo criteri predeterminati e legittimi non  si  vede
quale contestazione possa legittimamente fare, se non contro il Fato,
e  sempre  nell'ottica,  piuttosto  gretta,  del  «particulare»   del
Giudice, che bada a non avere fascicoli di troppo sul suo tavolo.  Ma
si spera che l'etica del  lavoro  del  Giudice  italiano  sia,  nella
media, un po' migliore di quella che traspare da cio'. 
    § 6 - I profili di  illegittimita'  costituzionale  del  sistema:
disparita'  tra  processo  civile  e  processo  penale.  Come   sopra
osservato, la comparazione con quanto accade nel processo civile puo'
essere un utile punto di riferimento. 
    Come e' noto, e come risulta dalle numerose pronunce della stessa
corte costituzionale, il problema si e' posto sopratutto nel caso  di
incompatibilita' derivante da attivita' compiuta dal giudice in altra
fase  processuale.  In  questo  contesto,  e'   noto   l'orientamento
restrittivo delle corti apicali. 
    Tuttavia   proprio   sul   versante   del    collegato    profilo
dell'astensione obbligatoria, si vede come nessun  potere  spetti  al
capo dell'ufficio e la situazione di astensione obbligatoria  produca
i suoi effetti a fronte della semplice dichiarazione  del  magistrato
interessato. 
    E, per converso, sono altrettanto noti gli interventi della Corte
costituzionale circa  le  ipotesi  di  incompatibilita'  del  giudice
penale derivanti dall'avere in qualche modo preso cognizione in altra
fase processuale. 
    Si assiste, in tal modo, ad un massimo di  tutela,  nel  processo
penale proprio rispetto a quelle condizioni di incompatibilita',  che
si sogliono  definire  «fisiologiche»  rispetto  a  quelle  che,  sul
versante dell'astensione, si sogliono definire  «patologiche».  Nella
misura in cui il  concetto  di  patologia  avviene  ricollegato  piu'
strettamente alla persona fisica del magistrato, appare evidente  che
la fattispecie che  discende  dall'ipotesi  dell'art.  37  cosi  come
modificato dalla sentenza della Corte costituzionale numero  283  del
2000 appaia in qualche modo partecipe dell'una e dell'altra natura, e
piuttosto si presenti come  fisiologico,  nella  misura  in  cui  non
riguarda affatto la persona fisica del  magistrato  ma  semplicemente
una funzione legittimamente svolta in altro processo (anche civile). 
    Appare allora agevole  osservare  come  sia  vieppiu'  rafforzata
l'affermazione secondo la quale il giudice dichiarante, piuttosto che
decidere  una  «sua   incompatibilita'»,   prende   posizione   sulla
incompatibilita' obiettiva di  due  situazioni  processuali.  E  che,
dunque, «duttile» o «non duttile» che sia lo  strumento  che  in  tal
modo appronta l'art. 37  modificato  esso  abbia  in  ogni  caso  una
valenza secondo parametri obiettivi. 
    Di qui, se da un lato appare improprio qualsiasi  riferimento  ad
una «patologia», propria di un momento successivo, rapportata ad  una
«fisiologia» proprio  in  un  momento  precedente,  per  il  tipo  di
astensione di cui ci stiamo occupando, ne esce rafforzata l'assonanza
coll'incompatibilita', dalla  quale  la  fattispecie  astratta  cosi'
creata sembra differire, a causa della preoccupazione, propria  della
Corte  nel  momento  in  cui  emise  la  sentenza  additiva,  di  far
verificare  al  Giudice  caso   per   caso,   secondo   gli   apporti
giurisprudenziali, la «medesimezza» del fatto pregiudicante. 
    Pertanto deve ritenersi che una diversa  disciplina  rispetto  al
processo civile non solo, in  prima  battuta,  violi  chiaramente  il
principio di uguaglianza, non avendo alcun motivo il  giudice  civile
di operare diversamente in questi casi rispetto al giudice penale, ma
viene anche violato un principio di ragionevolezza, nella  misura  in
cui una situazione di tal genere non viene in  rilievo  nel  processo
penale, il quale pure e' improntato  a  quella  che  suole  definirsi
«verginita' cognitiva», su cui  tra  l'altro  poggia  gia'  tutta  la
normativa sull'incompatibilita'. 
    Quanto al tipo di pronuncia in grado di rimuovere i  problemi  di
legittimita' costituzionale, non si ritiene che comporti una  tecnica
manipolativa  particolare,  potendosi   ben   limitare   all'aggiunta
dell'inciso al terzo comma dell'art.  36  c.p.p.,  che  in  tal  modo
verrebbe ad assumere la seguente forma. 
    2. La dichiarazione di astensione, limitatamente  all'ipotesi  di
cui alla precedente lettera h), e'  presentata  al  presidente  della
corte o del tribunale che decide  con  decreto  senza  formalita'  di
procedura.